mi piace leggere, viaggiare e il mare in tutte le stagioni. credo fermamente in tutte le ragioni dell'essere, nel suo manifestarsi e nella profonda bontà dell'animo umano.

mercoledì 24 novembre 2010

PANTALONI A VITA BASSA

“Vieni entra. Sei puntuale!”.
Così disse la mia prof.ssa di italiano delle medie.
Andai da lei quel pomeriggio, dietro suo invito ricevuto la mattina a scuola. Entrai titubante e mi guardai intorno: tutto era spazioso, lindo e profumava di legno. Il pavimento di marmo lucido rifletteva le pareti di un colore tenuo e caldo.
“accomodati pure “ mi disse facendomi cenno di entrare in un grande salone luminoso.
Ero intimorita. Avevo l’impressione che muovendomi avrei rotto un incantesimo. La luce che entrava dalla grande finestra illuminava le vetrine di un grande mobile antico in legno massello. Mi guardavo intorno soggiogata da tanta bellezza. Di certo non assomigliava affatto all’ambiente dove vivevo io, tutto piccolo e sporco.
“prendi pure le caramelle” disse, porgendomi un contenitore di cristallo pieno di caramelle di zucchero che luccicavano nei loro involucri colorati.
Il suo tono era gentile e carezzevole. La sua voce molto calma.
Tutto era calmo in quella casa. Non come a casa mia dove le urla la favevano da padrone.
Mi sentivo imbarazzata ma nel contempo felice di poter respirare un’aria così lontana dalla mia realtà.
Intanto la mia prof.ssa parlava, sempre con il suo tono dolce e tranquillo che avvolgeva i miei pensieri. Qualcosa arrivava sotto pelle. Sentivo che di quella signora, che assomigliava alla fata madrina di cenerentola, mi potevo fidare.
Ma fino a un certo punto. Il muro che avevo innalzato tra me e gli altri era sempre lì, invisibile e impenetrabile.
“…ascolta Alice, volevo dirti qualcosa che potrebbe offenderti e io non vorrei mai ferirti in nessun modo…” così continuava la mia prof.ssa quando rivolsi di nuovo l’attenzione a quello che stava dicendo.
Offendermi?, la dolce e buona signora parla di offendermi? E come potrebbe? non riuscivo a comprendere.
“vedi, mia figlia ha dei pantaloni che non mette più perché fuori moda, sai sono a vita bassa andavano un po’ di tempo fa, adesso non si mettono più. Però sono come nuovi, non li ha mai messi.”
Parlava di pantaloni di sua figlia. Sua figlia viveva sicuramente in quella casa. E certo, era sua figlia!
Si sedeva in quelle morbide poltrone tutte le volte che voleva! Vedeva quella luce splendida tutti i giorni! Che ragazza fortunata!.
“ posso andare in bagno?” chiesi.
“ ma certo!, è in fondo al corridoio, se vuoi ti accompagno!”mi rispose la dolce signora.
Mi accompagnò in un ambiente altrettanto luminoso e pulito. Mi fece entrare e mi disse “ ti aspetto in salone”. E si allontanò chiudendo silenziosamente la porta. Girai lo sguardo tutt’intorno lentamente senza avanzare di un passo. Come era bello! Sembrava uno di quei bagni che si vedono nei film, con le piante e tutto il resto. Di certo sua figlia faceva il bagno in quella splendida vasca con l’acqua calda e il bagno schiuma profumato!.
Feci la pipì e dopo mi affacciai alla finestra che dava sul cortile interno del palazzo di 5 piani. Certo le cose viste da lassù hanno tutta un’altra aria! Pensai tirando lo sciacquone. Volsi lo sguardo allo specchio lucido e vidi riflessa una bimba di 10 anni un po’ emaciata e pallida con i capelli di un castano smorto, corti e scarmigliati e un vestito un po’ sporco e logoro di cui mi vergognai subito. Cercai di riassettarmi alla meglio. Tanto non sarei mai riuscita a essere all’altezza di quell’ambiente e continuando a vergognarmi uscii. Chiusi il più lentamente possibile la porta per non far rumore e anche perchè non sapevo come chiudere una porta funzionante e nuova. Raggiunsi la prof.sa in fondo al salone. Quando mi vide mi rivolse un sorriso invitandomi a sedere. Non mi faceva mai troppe domande. Parlava per lo più lei, quindi continuò dicendo” se questo dovesse offenderti o dovesse offendere la tua mamma fatemelo sapere.” Non afferravo precisamente cosa volesse dire ma vedevo il suo viso preoccuparsi e questo non potevo sopportarlo soprattutto se pensavo potessi essere io l’oggetto della sua preoccupazione.
“no, no non mi offende, va bene!” risposi in fretta.
“ bene, allora li vado a prendere così te li faccio vedere”.
Ne approfittai per avvolgermi ancora in quell’aria tranquilla e serena. Mi guardai intorno ancora incuriosita dalla casa.
Il mio sguardo si posò sul mobile dell’ingresso dove giacevano un paio di guanti, posati ordinatamente. Erano i guanti che la dolce signora indossava per venire a scuola. Quando entrava in aula, dopo aver salutato tutti gli studenti, s’incamminava verso la scrivania e chiedendoci come era andata la mattinata si toglieva i guanti lentamente e con cura li poggiava sopra la scrivania, dove rimanevano sino alla fine della lezione. Io, durante la mattina di lezione tra una lettura e una spiegazione, ogni tanto li guardavo, lì poggiati, in pelle nera con la loro pelliccetta intorno ai polsi, che dava l’aria di essere così morbida. Il mio sguardo si posava con insistenza su di essi: morivo dal desiderio di poterli sfiorare!.
E Adesso erano lì, a portata di mano e non resistetti. Mi avvicinai, furtiva, al mobile dell’ingresso guardandomi intorno. ero ad un passo, allungai la mano e…. li toccai.
Come erano morbidi!
Proprio come avevo immaginato!
Strinsi tra le dita la soffice pelle nera, palpandola delicatamente.
La pelliccetta all’interno, rasa e bianca, era di morbidissimo pelo di lapin. Provai qualcosa di così intenso che chiusi gli occhi.
Che sensazione bellissima.!
Li riaprii immediatamente con un senso di trasgressione.
Dopo un attimo li rilasciai andare in fretta sul mobile per paura di essere scoperta. Ritornai furtiva nel salone e ancora estasiata da ciò che avevo provato, aspettai inebetita il ritorno della signora.
Poco dopo fu di ritorno con in mano un paio di jeans nuovissimi.
Continuò a scusarsi e a invitarmi ad andarla a trovare ogni qualvolta lo volessi.
Io dal canto mio era ancora stordita dalla nuova sensazione che la pelliccetta aveva lasciato sulle mie dita. Ammutolita e ancora in estasi, presi i pantaloni, ringraziai e con voce fievole chiesi
“ veramente posso venire a trovarla ancora?”
“certamente! “ rispose sempre con il suo tono gentile e premuroso. Dal mio viso sentii spuntare un sorriso. “Adesso vai che tua mamma ti aspetta” disse la dolce signora. Mi accompagnò alla porta, l’aprì e mi salutò affettuosamente. Uscii e dopo un ultimo sguardo presi a scendere le scale. “ A domani” disse la prof.sa sulla soglia e poi richiuse dolcemente la porta. Lentamente e ancora con un sorriso ebete sulle labbra, continuai a scendere i gradini delle scale, in mano la busta con dentro i pantaloni a vita bassa.

Giovanna Di Martino

mercoledì 17 novembre 2010

IL VOLANTINO

La ragazza entrò in un bar, era depressa. Si guardò attorno con sguardo vacuo. C’erano gli stuzzichini sul bancone, residuo degli happy hours, pubblicità, volantini.
Afferrò un volantino, lo lesse. Nella sua mente le parole scorrevano come in un film con i sottotitoli. Ma non erano le parole del volantino quelle che vedeva. Erano parole del suo recente passato. Qualcuno gliele aveva urlate nelle orecchie e le facevano male, ferivano.
Rigirò il volantino tra le mani. Le lacrime volevano scorrere libere, ma non poteva. La testa le scoppiava. Tanti pensieri alla rinfusa alla ricerca di una risposta.
Avrebbe voluto gridare al barista “ mi dici tu cosa devo fare? Aspetto un bambino da un uomo insopportabile e crudele, ma è il padre del mio bambino e mio figlio ha bisogno di un padre!
Rispondimi, dammi tu la risposta, cosa devo fare?”. Il ragazzo del bar la fissò e dopo qualche secondo ripetè “desidera?”.
Si fissarono, e dopo un tempo interminabile, la ragazza disse “ un caffè!”.
Incasso le spalle e con un gesto lento piegò il volantino e lo mise in tasca. Bevve il suo caffè. Pagò alla cassa e uscì nell’aria gelida della sera, immersa nella sua solitudine e con la sua domanda mai posta.
Quante volte ci siamo chiesti “ ma come faccio a risolvere questo problema? Chi è che mi può aiutare?” e se non abbiamo amici, parenti di cui ci possiamo fidare, con cui poterne parlare, rimaniamo soli con i nostri dubbi, le nostre paure che crescono, crescono fino a sovrastarci.
E quando la nostra solitudine diventa spessa e densa come melassa ci ritroviamo in un mondo dove gli altri sono meteore che sfrecciano tutto intorno a noi e non riusciamo a capire cosa accade e perché scivoliamo sempre più giù.
Giù è sempre più buio, non si vedono più i contorni, tutto è uguale: nero!
Qualche volta si intravede una luce in lontananza che si avvicina sempre di più fino a prendere forma. È il viso di qualcuno, il più delle volte uno sconosciuto, che dice “ ti posso aiutare?”
Lo guardi. Rimani perplessa. Non rispondi.
E la luce si allontana, fino a sparire un’altra volta. Non riesci a capire cosa è successo. Il buio lo conosci meglio, è la condizione nella quale ti trovi più spesso.
Ma poi accade qualcosa.
Un’altra piccola luce si avvicina, diventa sempre più splendente.
È un altro viso che ti chiede “ ti posso aiutare?”
Non rispondi. Ma il “viso” non va via.
È lì, aspetta, non va via.
Ti ascolta e aspetta.
È come se sapesse della tua titubanza a uscire dal buio. È come se sapesse che hai bisogno di tempo, di spazio.
E aspetta.
A quel punto ti rendi conto che è lì per te, è disposto ad ascoltarti. Non è noioso quello che hai da dire. Non dai fastidio.
Azzardi a dire qualcosa. Qualsiasi cosa, anche cose stupide.
Ma egli ascolta ancora. Anzi ti ascolta veramente. Te ne accorgi, perché qualcosa dentro di te si riscalda, si distende.
Ascolta le cose che non dici, le emozioni represse che aspettano questo momento per farsi sentire.
Cose che non sai nemmeno di avere. Ma è tutto lì dentro di te, e c’è un gran caos, perché ogni cosa vuole il suo spazio e la sua voce. E allora urlano tutte assieme, e nella tua testa c’e tanto rumore.
“Il viso” tutto questo lo sa. Non si spaventa se piangi, se gridi, se non parli.
Egli aspetta. E ti ascolta!
Allora ti rendi conto che ogni cosa dentro di te ha un nome: rabbia, tristezza, melanconia, disperazione, angoscia.
Ma anche dolcezza, tenerezza, gioia.

Sono passati quattro anni, la ragazza ha scoperto come non essere più sola.
Da’ ascolto alle sue emozioni. Ha scoperto che qualcuno può insegnarle come imparare a sentire.
A dar voce a quel tumulto interno.
Qualcuno che crede che le persone siano importanti. Tutte. Compresa lei.
Certo i suoi problemi non si sono dissolti. Ma adesso sa che ci sono tanti modi di vedere le stesse cose. Soprattutto se si ha la consapevolezza che le risorse per cambiare visione sono dentro ognuno di noi, e che ognuno di noi è un mondo. Un mondo in evoluzione ed autoattualizzante.
“ …Sia che si parli di un fiore o di una quercia, di un verme fangoso o di uno splendido uccello, di una scimmia o di una persona, credo che faremmo la cosa migliore a riconoscere che la vita è un processo attivo, non passivo. Sia che lo stimolo provenga dall’interno o dell’esterno, sia che l’ambiente sia favorevole o sfavorevole, i comportamenti di un organismo possono essere compresi in termini del mantenimento, dell’arricchimento e della riproduzione di se stesso. È questa la natura stessa del processo che definiamo vita. Una tendenza del genere è all’opera in ogni momento. E di fatto , solo la presenza o l’assenza di questo processo totalmente direzionato ci consente di dire se un organismo è vivo o morto…” (1).

La ragazza ha trovato uno spazio, un tempo, in cui tutto questo è riconosciuto da altri come lei. Persone che credono in quell’ascolto empatico capace di far germogliare quella forza preponderante che è la vita.
Entra nella stanza. Si guarda intorno e vede tanti “volti”. Sono lì per lo stesso motivo. Per imparare.
Imparare un modo di essere.
Gli altri membri del gruppo sono già tutti lì. Sorride, saluta i suoi amici. Oggi c’è lezione, come da un anno ormai.
In quest’ultimo anno trascorso, sono accadute tante cose. L’ ambiente protetto, dove hanno luogo le lezioni, ha permesso a tutti di rilassarsi quel tanto da abbandonare, almeno per un po’, alcune difese.
È contenta di essere lì, insieme a loro, a sperimentare ciò che avviene quando una persona viene messa in condizioni di concentrare l’attenzione sui vari livelli di cui è composto il suo mondo interiore. Ha visto e sperimentato personalmente le tecniche della risposta riflettente. Ciò che più l’ha colpita è quello che scatena il risentire, ripetuta dall’altro, la stessa parola o la stessa espressione detta poco prima. L’altro non sa a cosa si aggancia quella data espressione ma sa che se abbiamo usato quel termine e non altri è perché, sicuramente, quello è il termine che fa vibrare qualcosa dentro di noi. E’ questa la magia delle parole. E succede qualcosa di straordinario.
L’esperienza di uno si propaga, ad effetto onda, sugli altri. Ciò che sta provando una persona in un dato momento passa come per osmosi a tutto il gruppo. Le persone sentono di essere in contatto.
“Esse lo sperimentano come una tensione verso un’esperienza trascendente di unità”. Così quando si forma un clima psicologico che permette all’individuo di essere – si tratti di clienti, studenti, lavoratori o di persone in un gruppo- non siamo coinvolti in un evento casuale. Attingiamo ad una tendenza che permea tutta la vita organica – una tendenza a divenire tutta la complessità di cui è capace l’organismo…..Su una scala più ampia siamo in armonia con una potente tendenza creativa che ha dato forma al nostro universo, dal più piccolo fiocco di neve alla galassia più grande, dall’umile ameba al più sensibile e dotato essere umano. E forse stiamo toccando il limite estremo della nostra capacità di trascenderci, di creare direzioni nuove e più spirituali nell’evoluzione umana”(1).
La strada che porta a questo sentire è disseminata di vicoli ciechi. Occorre ascoltare l’eco che ogni atteggiamento dell’altro fa risuonare dentro di noi, discernere la nostra voce da quella dell’altro. E quando abbiamo preso un po’ di dimestichezza con questo meccanismo, si riesce a sentire l’entità gruppo, si percepisce l’essere insieme e l’individualità. Certo, se c’è uno scopo comune, tutto questo accade più facilmente giacchè le energie del gruppo fungono da catalizzatore. Ma è anche vero che questo può avvenire ogni volta che c’è un vero con-tatto con un altro individuo.
Creare questo con-tatto è lo scopo del nostro divenire.
Quali sono i presupposti affinchè ciò avvenga? È necessario un rapporto permissivo, non direttivo. Rispetto e accettazione incondizionata della persona. Comprensione empatica più dei sentimenti che dei fatti che la persona porta.
Durante questo anno, la ragazza ha potuto vedere come queste cose siano possibili.
Che l’autore di questo pensiero, Rogers, ha dato un grande contributo alla scoperta dell’animo umano.

Ecco sono tutti pronti a vivere un’altra splendida avventura, un’altra giornata di lezione, di lavoro qualche volta dolorosa, spesso faticosa, ma sempre coinvolgente e formativa.
Ogni insegnante è atteso con curiosità e aspettativa.
La ragazza si guarda intorno e aspetta. È pronta a esplorare un altro lato di se stessa.
Parla, ride, scherza con i suoi amici e distrattamente si mette le mani in tasca, ne estrae un volantino un po’ spiegazzato. È lì da un bel po’ di tempo.
Lo dispiega e comincia a leggerlo:
Scuola di Counseling familiare e dell’età evolutiva..…………






Giovanna Di Martino
Ottobre 2006 - 1° anno di scuola di counseling familiare e dell’età evolutiva di Piera Campagnoli – Gorgonzola.





(1) Rogers, un modo di essere

giovedì 11 novembre 2010

la capacità negativa

capacità negativa
(negative capability)








Il poeta inglese John Keats, in una lettera del 1817, ha chiamato capacità negativa il saper «stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impaziente di pervenire a fatti e a ragioni». Lanzara [1993] la descrive come la capacità di:
essere nell'incertezza, di farsi avvolgere dal mistero, di rendersi vulnerabili al dubbio, restando impassibili di fronte all'assenza o alla perdita di senso, senza volere a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o a motivi certi, [di] accettare momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione, e di cogliere le potenzialità di comprensione e d'azione che possono rivelarsi in tali momenti. [...] questo stato di sospensione [...] dispone a lasciare che gli eventi seguano il loro corso, restando in vigile attesa, e a lasciarsi andare con essi senza pretendere di determinarne a priori e a tutti i costi la direzione, il ritmo, o il punto d'arrivo. [Lanzara, 1993]

La capacità negativa consente di prestare attenzione ad aspetti delle situazioni che altrimenti verrebbero trascurati. Per questa ragione, è «fonte di un particolare tipo di agire: un agire che, per così dire, nasce dal vuoto, dalla perdita di senso e di ordine, ma che è orientato all'attivazione di contesti e alla generazione di mondi possibili» [Lanzara, 1993]. Essa si contrappone a quella che si potrebbe chiamare incapacità positiva che, invece, «premia la prestazione specialistica, l'orientamento al risultato, il successo a breve termine, la conformità a norme e a modelli canonici di comportamento e l'acquisizione di certezze» [Lanzara, 1993]. Vi è, infatti, una produttività frutto dell'ordinata adesione a modelli, aspettative, stereotipi, schemi socialmente consolidati; esiste però una creatività che nasce dalla capacità di stare produttivamente nel disordine o nel "far senza", nello strare nella mancanza di qualcosa alla quale si rinuncia per consentire l'apparizione del nuovo.

bisogna vedere se l’ordine che io mi do nasca dalla capacità di sostare nel disordine. C’è un ordine generato creativamente con tutta la pazienza di sostare nel disordine, capacità negativa, accettazione della novità, complessità: quello sarà un ordine costruttivo ed appropriato. Se invece un ordine è generato dall’impazienza è difensivo: lo produco in quanto non ce la faccio più a stare in una situazione di disordine. [Pagliarani, 1993]
La parola decisiva per me è la parola mancanza [...] la mancanza può essere il grembo da cui nasce quello che prima non era mai stato visto; la mancanza può essere l'abisso, il buio, lo smarrimento [Pagliarani, 1985]

Se le organizzazioni sono anche «il mezzo di cui i loro singoli membri si servono per rafforzare i meccanismi individuali di difesa contro l’ansia e, in particolare, contro il riaffiorare delle primordiali ansie paranoidi e depressive» [Jaques, 1955] e se - come illustra ampiamente lo stesso Jaques nel brano riportato - sono proprio le attività più creative (e nelle quali è più alta la responsabilità individuale) a generare più facilmente ansia, allora la capacità negativa è necessaria per affrontare l'incertezza e l'ambiguità legate alle situazioni organizzative più critiche, ad esempio le decisioni nel corso di processi di cambiamento.

La messa in opera del principio di realtà conduce alla gratificazione differita e non a quella immediata, comportando l'impiego della discrezionalità (nel senso del giudizio, e non nel senso corrente dell'essere discreto) al fine di determinare quali itinerari d'azione porteranno al miglior risultato finale. Occorrono perciò discriminazione e giudizio, nonché presa di decisioni.
La decisione contiene in sé l'incertezza circa la bontà e richiede perciò la capacità di tollerare tale incertezza in attesa dell'esito finale che può anche essere un fallimento. Va notato però che questa incertezza ha una sua peculiare qualità. L'uso di discrezionalità dipende da funzioni psichiche inconsce e consce, dalla capacità di sintetizzare idee e intuizioni inconsce e di portarle poi al livello della consapevolezza. Non c'è da meravigliarsi perciò se nel cuore di questa incertezza troviamo l'ansia mobilitata dal fatto che il successo dipende dalla coerenza e dalla disponibilità della vita psichica inconscia [...]
Il conformarsi a regole, disposizioni e ad ogni altra componente prescritta del lavoro richiede semplicemente il possesso di conoscenza (o si sa o non si sa), ma non richiede lo sforzo psichico della discrezionalità e della decisione, con la congiunta esperienza emotiva dell'ansia. [...]
Più lungo è il periodo [entro il quale si esercita discrezionalità rispondendone in prima persona] e maggiore sarà il materiale inconscio da rendere conscio, più lungo sarà lo stato di incertezza e d'ansia da tollerare, relativamente sia all'esito finale sia alle scelte e ai giudizi effettuati. [Jaques, 1970]







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Jaques E. [1955], Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva, in Klein M. et alii (a cura di), Nuove vie della psicoanalisi, Il Saggiatore, Milano, 1966.
Jaques E. [1970], Lavoro, creatività e giustizia sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.
Lanzara G.F., Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1993.
Pagliarani L., Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1985.
Pagliarani L., Violenza e bellezza, Guerini e Associati, Milano, 1993.

mercoledì 10 novembre 2010

COME LE STELLE - PENSIERI DI UN MALATO DI CANCRO

La sera sta allungando la sua mano.
Vedo le sue dita penetrare nella finestra della mia stanza allungando le ombre, spingendo verso di me un senso di solitudine che per quanto faccia so che mi prenderà dentro, maltrattandomi la notte.
Le visite anche per oggi sono finite e io posso riporre il mio coraggio nel cassetto.
Fingere adesso non serve.
Mia moglie mi ha salutato con un bacio e di quel contatto conserverò il ricordo fino alla prossima visita.
Non ho potuto abbracciare la mia bambina però, e questo mi fa male più della malattia.

Le luci si spengono e per me inizia il periodo del riposo notturno o della dannazione.
Le luci del corridoio filtrano ovattate, e infermieri passeggiano per i corridoi, conversando.
Sento pezzi dei loro discorsi, sono squarci di vita. Penso che non molto tempo fa, avevo anch’io le stesse preoccupazioni e i loro sorrisi.
Anche nelle mie parole vi era la certezza di un tempo da vivere.
Un tempo che sembra sempre infinito quando non si hanno ancora 37 anni, una moglie giovane e una figlia piccola da crescere.
Ma il destino ha un modo tutto suo di intendere la vita e quando decide di portarti il conto non puoi rifiutarti di pagare.
Il prezzo che devo pagare io al destino è davvero molto alto, e ha un nome:
Linfoma non Hodging lo chiamano, è una forma di cancro che non lascia molto spazio alla speranza.
Nel mio caso la speranza si è dissolta con il tempo che del destino ne è l’esattore.
Mi ricorda ogni giorno passato e non scorda di segnarsi nemmeno un giorno.
So che non avrò molto da vivere e per quanto faccia mi rendo conto di non essere pronto per l’ultimo viaggio.
Anche se il bagaglio è pronto.

La notte pesa e dormo sempre di meno.
La memoria sfoglia il suo personale album e mi ricorda come ero.
Lo specchio mi dice come sono.

Avrei voglia di vivere ancora un po’ del mio tempo migliore, di quando giravo in moto senza meta assaporando la vita e la libertà di una Roma che di sera mi è sempre sembrata bellissima.
Vorrei riappropriarmi della mia allegria, quella che tutti mi riconoscevano venendone contagiati.
Eppure so ancora ridere e sento il calore della vita dentro.
Mi attacco spesso a quei brandelli che mi sono rimasti addosso e cerco di comprendere ogni istante che mi viene concesso.
Anche la sofferenza ha un senso e anche questi giorni sono comunque vita.
So di lottare contro un esercito troppo grande e forte, ma non ho mai pensato di deporre le armi anche se l’epilogo è scritto.

Quello che faccio fatica ad accettare è il distacco da mia figlia e dalle persone che amo.
Adoro la mia bambina, sono pazzo di lei.
Vorrei poterla tenere ancora per mano, portarla a passeggio in un parco e raccontarle quelle storie che le sono sempre piaciute tanto.
Le avevo promesso che un giorno l’avrei portata con me in moto, mettendogli un casco a fiori, portandola a visitare luoghi incantati. Le ho promesso che l’avrei condotta in montagna, in alto, ma così in alto da vedere il nido delle aquile e seguirne il volo.
Quando penso che non potrò osservare il suo cammino, aiutarla nelle difficoltà della crescita e che non potrò vederla diventare donna, osservando il suo profilo cambiare…
Quando penso a questo sento dentro qualcosa che fa male.

Chissà cosa gli resterà di me crescendo, se i ricordi che possiede resisteranno al tempo o andranno man mano sfuocando, fino a perdersi.
Mi chiedo se la mia voce resterà in lei o sarà eco destinato a sovrapporsi e confondersi tra migliaia e migliaia di rumori.
Mi chiedo cosa conserverà e che cosa penserà di suo padre un giorno.

Oggi mia moglie mi ha aiutato ad alzarmi e ho potuto vedere dalla finestra della mia stanza la mia piccola giocare in giardino.
Sembrava un puntino colorato e quando ha alzato il suo faccino al cielo e mia ha fatto ciao- ciao con la manina, non sono riuscito a trattenere la lacrima.
L’amore a volte si scioglie.

Ho guardato mia moglie e le ho detto che mi dispiace.
Mi dispiace lasciarla sola, abbandonare lei e mia figlia, mi dispiace interrompere tutti i progetti che avevo con lei, che non era questa la vita che avevo immaginato.
Lei mi ha rincuorato, mi ha stretto la mano e mi ha detto che tutto andrà bene, che sarei tornato a casa con loro, ma io so che non è vero.
Anche mia moglie lo sa.
Ci sono sempre più silenzi tra di noi, i discorsi a volte escono a fatica e le parole pesano.

Non è facile per lei e so che quando mi guarda vede la malattia che porto addosso e i suoi inequivocabili segni.
Non ho più capelli, sono debole e ultimamente sono dimagrito moltissimo.
Ho un occhio perennemente gonfio che mi sfigura il volto.
Ma lei è qui e non mi fa mancare il suo amore, anche se sento la sua sofferenza.
Sento di amarla e ammiro il suo coraggio.
A volte vivere è più difficile che morire.

Con lei spesso parlo di Dio e di un mondo diverso che presto andrò a scoprire.
Me lo immagino l’aldilà, ci penso spesso ultimamente, in un modo tutto mio.
Spero che mi diano il permesso di vedere mia moglie e mia figlia nel luogo dove andrò.
Quando parlo con lei di questo argomento, cambia spesso discorso; so che non ne vuole parlare, cercando di esorcizzare la paura che inevitabilmente l’assale.
Quasi volesse rimandare l’inevitabile, allontanarlo dalla mente, magari per un alto poco.

La capisco, ma io ne ho bisogno. Ho bisogno di lasciare uscire quello che ho dentro, svuotare gli angoli colmi di angoscia e trovare la mia serenità.
Ho bisogno di far fluire il mio dolore, renderlo liquido ed espellerlo.
Ho bisogno di sentirmi leggero.

Ora sento gli occhi pesanti.
Non so se sono le medicine che prendo, la debolezza dovuta alla malattia, ma mi sento stremato.
Il sonno è alle porte e lo attendo come una benedizione.
Riesco a dormire poco, ma sono sonni profondi, senza sogni.

E’ in questi momenti, pochi minuti prima di scivolare nel sonno che penso a se riaprirò gli occhi e vedrò la luce di un nuovo giorno.
Mi chiedo se il bacio che mi ha dato mia moglie è stato l’ultimo o avrò ancora il conforto delle sue labbra e se la manina protesa di mia figlia è stata levata per l’ultimo saluto.


Volto il mio sguardo verso la finestra e mi godo il pezzo di cielo che posso vedere da qui.
Ci sono tantissime stelle questa sera, e mentre le guardo penso che la vita sia davvero meravigliosa e che qualcosa ho fatto in questa vita.
Penso che tutto deve avere un senso anche se questo a volte è difficile da comprendere.

Le stelle brillano o forse sono solo i miei occhi, ma mi sembrano più vicine del solito stasera.
Invidio il senso di eterno che si portano addosso.

Vorrei essere come loro. (racconto di Stefano Borghi)