mi piace leggere, viaggiare e il mare in tutte le stagioni. credo fermamente in tutte le ragioni dell'essere, nel suo manifestarsi e nella profonda bontà dell'animo umano.

mercoledì 29 settembre 2010

IL COUNSELOR

Il counselor è una professione di aiuto tipica di una società molto mobile e competitiva. Essa interviene a sciogliere, in un breve arco di tempo e in senso positivo, situazioni di disagio, non caratterizzate da patologie né psicologiche ne fisiologiche. Il counselor deve avere delle conoscenze di psicologia ma non è uno psicologo e non fa psicoterapia perché non è di sua competenza. È a conoscenza delle patologie psicologiche, perché qualora si presenti un cliente con delle difficoltà manifeste, ha l’obbligo di indirizzarlo allo specialista di competenza. Ma prima ancora dell’applicazione di tecniche o strategie è lo sviluppo delle proprie qualità personali che è fondamentale per il counselor. Si potrà diventare catalizzatori di un processo di crescita nel proprio interlocutore solo attraverso un incontro autentico sul piano umano.
E’ un atteggiamento professionale peculiare quello con cui il counselor si rivolge al cliente, a metà strada tra il rituale distacco del medico e il caldo coinvolgimento dell’amico del cuore. Che cosa caratterizza questa relazione, la cui specificità ha portato alla decisione di non italianizzare il nome della professione ma di mantenerne la dizione originaria – counseling – dal significato insostituibile? Proprio il fatto che, prima ancora di essere un rapporto professionale, il counseling è un rapporto umano.
E’ un momento privilegiato di interazione in cui il counselor crea le condizioni per una comunicazione autentica, in cui il cliente si senta accolto, ascoltato, accettato, compreso. In una società come quella sopra descritta diventa sempre più difficile per le persone crearsi situazioni in cui potersi aprire con un interlocutore senza doverne temere il giudizio, la considerazione superficiale, il disinteresse o addirittura il rifiuto.
Il counseling risponde a questa profonda necessità di incontro autentico e di condivisione di riflessioni inascoltate che spesso, una volta accolte da un orecchio attento, da sole si incanalano verso una possibile risoluzione adatta alla persona. Anche in questo il counseling si distingue da altre relazioni professionali, nel suo accompagnare dolcemente l’interlocutore verso l’esplorazione della sua situazione sostenuto dal sottinteso che sarà lui stesso a poter trovare la soluzione di volta in volta necessaria, che è lui – il cliente - l’ “esperto”, l’unico possibile esperto nell’arte di comprendere e dirigere la sua stessa vita.
Al di là della metodologia e delle tecniche usate dai diversi approcci nel counseling, questa priorità dell’incontro umano accomuna tutte le scuole, è l’essenza stessa della relazione di counseling. È qualcosa che non si impara sui libri ma che è la vita stessa a insegnare, è un atteggiamento interiore di profondo rispetto e accettazione di sé e dell’altro, che può solo nascere da un lavoro di crescita personale, da un aver sviluppato in prima persona quella che Adrian Van Kaam definisce “ impegno esistenziale” : la consapevolezza della propria fondamentale libertà di fronte alle sollecitazioni della vita, della potenziale creatività di dare direzione e qualità alle relazioni e della responsabilità conseguente nei confronti della propria esistenza.
La formazione al counseling, ai futuri professionisti in questa nuova professione destinata a diffondersi sempre di più, passa necessariamente per un percorso di scoperta, riconoscimento e consolidamento delle qualità umane presenti in ogni persona che abbia affrontato in prima persona un percorso di conoscenza, accettazione e integrazione personale.
Un percorso che sviluppa , a sua volta, la sicurezza interiore necessaria per accompagnare un altro essere umano alla ricerca di sé, con la stessa tranquilla fiducia con cui una guida di montagna accompagna un escursionista sul suo percorso: fornendo stimoli ma sapendo attendere che l’altro sia pronto a coglierli, incoraggiando senza forzare, mettendo in guardia senza invadere, guidando, passo per passo, verso una crescente autonomia e una maggior fiducia in se stessi.
Il counseling è basato su una profonda fiducia nell’essere umano, nella sua capacità di autodeterminazione e nei suoi valori più alti potenzialmente presenti in ognuno. È questa fiducia che deve impregnare l’atteggiamento di ogni counselor, deve essere il messaggio subliminale che viene passato nella relazione per sostenere la persona nella sua ricerca di sé, con la tranquilla certezza che non spetterà mai al counselor dirle dove deve andare e cosa deve fare- guai - ma chi conduce l’incontro dovrà “ soltanto” essere lì per l’altro, esserci davvero, con tutto se stesso, con tutta l’attenzione, l’empatia, la partecipazione di cui è capace chi ha già fatto quella strada in prima persona e decide di intraprendere la professione di “facilitatore” del processo di crescita, di catalizzatore di un ampliamento di punti di vista e di orizzonti.
Questa presenza, questa capacità di mettere a disposizione la propria umanità, questa autentica premura dimostrata nei confronti del proprio interlocutore, prima ancora di qualsiasi tecnica o strategia pianificata a tavolino, sono gli elementi fondanti, peculiari e vincenti di questa nuova professione di aiuto, del counseling.




Il Counselor può operare come:

• libero professionista con consulenze individuali e di gruppo per quanto riguarda problematiche esistenziali, relazionali, di lavoro.

• Mediatore nell’ambito delle aziende e delle comunità

• Mediatore nell’ambito sociosanitario e scolastico

• Accompagnatore dei quadri aziendali nei processi di trasformazione aziendale e sociale

• Accompagnatore ( coach ) delle problematiche di riciclaggio professionale.



Vi sono molte metodologie di Counseling

Cognitivo-comportamentale
Gestaltico
Linguistico-transazionale
Psicoanalitico
Esistenziale
Di gruppo
Sistemico

Ognuno fondato su un diverso modello interpretativo.




Il counseling ad approccio integrato
a partire dalla metodologia Rogersiana accoglie i contributi più recenti del Cognitivismo Costruttivista e della prospettiva Sistemico-Relazionale.


Carl Rogers

Carl Rogers è famoso per il suo approccio pragmatico e per aver elaborato una forma di psicoterapia non direttiva: la terapia centrata sul cliente o counseling non direttivo.

Nasce nel gennaio del 1902 in Illonois, in un sobborgo di Chicago in una famiglia molto unita, con principi religiosi e morali piuttosto rigidi. All’età di dodici anni, con la famiglia si trasferisce in un podere ove trascorrerà un’adolescenza solitaria, piuttosto isolato. Interessandosi di agricoltura scientifica, comincia gli studi di agraria, segue alcune conferenze di carattere religioso e successivamente si orienta verso il ministero religioso. Grazie ad alcuni viaggi in Cina comincia a dubitare di alcuni fondamenti religiosi di base, prendendo distanza sia dal consenso familiare che dalle vecchie credenze. Dopo la laurea sposa – contro il volere della famiglia – Helen Elliot e con lei si trasferiche a New York dove frequenta una istituzione liberale, allontanandosi progressivamente dalla prospettiva di un lavoro religioso per diventare psicologo.
Partecipa a seminari e conferenze di natura psichiatrica e psicologica e durante la sua frequenza al Teacher College, gli viene offerto un incarico all’Istitute for Child Guidance, dove trascorre un anno in cui, lavorando, si trova a confrontarsi con altri professionisti. Successivamente viene assunto al “Child Study Departement” della società di Rochester per collaborare attivamente a progetti volti alla prevenzione della crudeltà sui bambini. Inizia quindi il lavoro clinico centrato sulla diagnosi e la rieducazione dei soggetti con comportamenti delinquenziali e con ritardo mentale, su incarico dei Tribunali.
In questo periodo approfondisce la riflessione sulla relazione terapeutica che diverrà materiale didattico nell’ambito dei suoi corsi universitari: all’università dell’Ohio, come professore di psicologia, alla Chicago University e infine alla University del Wisconsin.
Nel 1951 pubblica il suo lavoro principale – La terapia centrata sul cliente – in cui formula la sua teoria di base. Nel 1964 abbandona l’insegnamento per dedicarsi alla sperimentazione sui gruppi al Centro del Comportamento de La Jolla. Lavora ininterrottamente fino agli ultimi anni della sua vita, viaggianto per utto il mondo e dedicandosi alle sue teorie sul conflitto sociale. Muore all’età di 85 anni.


Rogers, insieme a Rollo May e Maslow, è tra gli psicologi che maggiormente contribuiscono a fondare e diffondere la Psicologia Umanistica.
Il pensiero fenomenologico esistenziale, nato in Europa, viene recepito negli Stati Uniti dalla corrente della Psicologia Umanistica detta Terzaforza rispetto alla Psicoanalisi e al Behaviorismo ( ritenute la prima e la seconda forza delle Psicologia).
Tutta la teoria e la pratica della psicologia umanistica si pone come reazione compensatoria al riduttivismo comportamentista e ancor più esprime un netto rifiuto di tutto ciò che richiami la neutralità e il distacco del terapeuta.
Tutto il “movimento encounter “ pur teorizzando stili di conduzione diversi, prevede il recupero dell’umanità, della spontaneità, dell’espressione – qui e ora - dei sentimenti, offrendo nuovi valori. Si avvale delle sperimentazione contemporanee applicate ai gruppi, comprese quelle di Moreno, Perls.

Il pensiero.

La teoria di Rogers è basata sulla sua vasta esperienza clinica.

Rogers prende presto distanza dal pensiero freudiano: considera la salute mentale come la progressione normale della vita e la malattia mentale (e altri problemi umani) come distorsioni della “ tendenza attualizzante”.

Si tratta di una forza di vita che può essere definita come la tendenza fondamentale dell’organismo, nella sua totalità, ad attualizzare le proprie potenzialità; essa opera sia sul piano dell’organismo, che su quello filogenetico e ha bisogno, per poter funzionare, di un contesto di relazioni umane positive, favorevoli alla conservazione e rivalutazione dell’Io.

Se la nozione dell’Io è realistica, cioè se vi è corrispondenza tra gli attributi che il soggetto crede di possedere e quelli che effettivamente possiede, egli sarà congruente e la persona potrà svilupparsi in modo unitario, autonomo e soddisfacente.

In genere il cliente si trova in una si-tuazione di incongruenza tra l’esperienza reale dell’organismo e l’immagine di sé che egli ha quando si rappresenta l’esperienza.

Sul piano psicoterapeutico si impone un metodo non direttivo, che rispetti le tendenze vitali e autoregolantisi dell’individuo; la terapia si limita a creare le condizioni necessarie e fondamentali a favorire la crescita.

Secondo il metodo non direttivo di Rogers il terapeuta, nel promuovere i processi di modificazione della personalità del paziente, si affida non a tecniche o all’interpretazione , ma all’empatia, concetto cardine dell’impianto rogersiano.

L’empatia (da empateia, passione) viene intesa come la comprensione dell’altro che si realizza immergendosi nella sua soggettività, senza sconfinare nella identificazione. Il terapeuta è capace di considerazione o accettazione positiva incondizionata verso il cliente, nella misura in cui sente di accettare ogni aspetto dell’altro, ogni sentimento – espresso o non espresso – sia quelli negativi, anormali che quelli buoni.

Se questa assenza di giudizio è presente, il terapeuta potrà avere una comprensione empatica di quanto il paziente sente a livello cosciente.

Rogers sottolinea il fatto che il terapeuta può sentire il mondo dell’altro come se fosse proprio, senza perdere di vista mai tale qualità del “ come se”.

Sentire l’ira, la paura, l’odio, il turbamento dell’altro senza aggiunte proiettive. Non direttività significa rispetto della libertà e dell’autodeterminazione del cliente e contemporaneamente autoeducazione continua del terapeuta, che è in continua crescita, seppure dolorosa e arricchente.

La terapia è intesa come un incontro tra due esseri umani in crescita; la lezione di umiltà che arriva da Rogers è valida perché ci ricorda la necessità di calarsi ogni volta nella relazione sapendo di uscirne trasformati, avendo chiara la relatività delle nostre convinzioni.

I suoi gruppi di incontro (T groups), esperienze intensive, partivano dalla chiara intuizione, ancora attuale, che la gente sia consapevole della propria solitudine interiore, dovuta alle maschere indossate per sopravvivere in una realtà complessa.







Il modello cognitivo

In social learnig theory (1977), Bandura critica la logica lineare del comportamentismo classico che considera l’ambiente come l’unica determinante dello sviluppo della natura umana.
Gli uomini non sono solamente organismi passivi plasmati da ciò che li circonda, ma possono pure influenzare il loro ambiente. Le persone non sono il prodotto della loro condizione socioculturale, ma vanno considerati dei soggetti attivi che producono il loro ambiente. Partendo da queste premesse A.T.Beck sviluppa la terapia cognitiva.
In accordo con i principi dell’apprendimento sociale di Bandura, Beck collega l’organizzazione di processi cognitivi ai fattori biologici e sociali. L’essere umano è visto come una creatura cognitiva complessa, la cui personalità è modellata dall’apprendimento di valori e percezioni che strutturano la visione unica di sé, degli altri e del mondo. I valori e le percezioni che costituiscono la personalità sono organizzati in schemi cognitivi, che sovrintendono ai processi di codificazione, categorizzazione e valutazione delle regole di vita.
In altre parole, il comportamento dipende da modo in cui gli individui percepiscono e interpretano gli eventi. Secondo il punto di vista cognitivo le persone non reagiscono passivamente all’ambiente, ma sono agenti attivi di cambiamento. Le cognizioni, i comportamenti e, in accordo con il costruttivismo , le emozioni guidano i comportamenti di adattamento individuale all’ambiente.

Il modello costruttivista

Secondo la teoria dei costrutti personali, gli individui costruiscono e interpretano attivamente la realtà. Essa di basa su un postulato fondamentale: i processi di pensiero che caratterizzano l’individuo vengono espressi nel modo in cui anticipa gli eventi ( G.Kelly, 1955).
I costrutti sono modelli personali di costruzione della realtà: le persone anticipano gli eventi attraverso il riconoscimento di regolarità di temi ricorrenti di episodi vissuti in passato, che si presentano nel pensiero e nel comportamento presente. Le modalità di anticipazione vengono definite “ costrutti personali”, unità minime di conoscenza, risultato dei processi individuali di differenziazione e di organizzazione della realtà.
Non esiste nessun sistema universale di costrutti, ma ogni costrutto riflette la personalità e i circuito di relazioni di un individuo. Due persone che vivono la stessa situazione raramente hanno la stessa esperienza di essa. Anche se gli individui costruiscono e comprendono gli eventi in modo personale, l’appartenenza alla stessa cultura permette di condividere sistemi di costrutti simili, dovuta a processi psicologici simili.
Il sistema di costrutti personale è organizzato in una rete gerarchica di significati, ordinati secondo la loro efficacia nell’anticipare le situazioni, anche se la previsione riguarda solamente una serie finita, e quindi limitata, di eventi.
Il sistema di costrutti personale varia con variare degli eventi, e la possibilità di modificarlo è determinata dal grado di permeabilità del sistema nel consentire l’immissione di nuovi elementi non ancora elaborati come costrutti, che devono essere comunque coerenti con la struttura di significati già esistente.
I problemi delle persone nascono dal loro fallimento nella costruzione di un sistema di costrutti appropriato. Per quanto riguarda la partecipazione alla rete di relazioni interpersonali, l’individuo acquisisce un suo ruolo quando è in grado di anticipare il processo di costruzione dell’altro. Quando la persona prevede il modo in cui l’altro costruisce la realtà, è pure in grado di predire i suoi comportamenti successivi, e quindi di stabilire una relazione specifica.
Il modello teorico-pratico costruttivista considera gli esseri umani come creatori e costruttori delle proprie realtà personali e sociali. L’attenzione è rivolta agli aspetti attivi e creativi dei processi cognitivi umani, nel tentativo di mantenere ordine e coerenza e raggiungere un buon adattamento col l’ambiente.
La realtà è considerata dinamica e complessa e richiede un adattamento continuo ai cambiamenti, sia modificando la propria organizzazione cognitiva, attraverso l’adozione di nuove regole per i pensieri, i sentimenti e i comportamenti, sia acquisendo abilità che permettono di risolvere i problemi in modo più efficace.
I disturbi emotivi e comportamentali non vengono considerati invalidanti, ma sono momenti che accompagnano lo sviluppo e che precedono o seguono la trasformazione e la riorganizzazione cognitiva. La psicopatologia corrisponde ad una limitata capacità di adattamento, inadeguata ad affrontare le richieste ambientali, proprie della fase evolutiva in cui si trova l’individuo. Inoltre, la patologia può derivare anche da un cattivo processo di attaccamento e separazione (Bowlby, 1983). I disordini conseguenti portano alla formazione dei convinzioni e regole irrazionali, causa dei processi di pensiero disfunzionali.


Il modello sistemico-relazionale


Alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, nell’ambito della fisica, della chimica, della matematica, si diffusero alcune teorie che mettevano in discussione la logica lineare e meccanicista del modello scientifico di derivazione cartesiana e newtoniana. La teoria generale dei sistemi, la cibernetica, le teorie sull’informazione e sulla comunicazione trovarono la loro applicazione in diversi campi della scienza, compresi quelli che studiavano l’individuo e i suoi rapporti con l’ambiente interpersonale.
L’unità di studio di queste ricerche non era più l’individuo isolato, ma l’individuo più il suo ambiente familiare nella loro interazione. All’interno di questa interazione, non avveniva uno scambio di energia, ma un passaggio di informazioni, che seguivano le regole sistemiche della retroazione e della circolarità.
Come per gli altri sistemi, anche le interazioni e gli scambi comunicativi tra i diversi membri che compongono la famiglia, e tra questa e l’esterno, sono governate da regole:

• totalità: il sistema non è costituito dalla somma degli elementi che lo compongono, ma dalla loro interazione reciproca; qualsiasi cambiamento in una parte del sistema produce un cambiamento nelle altre parti e nel sistema più ampio;
• omeostasi: è uno stato di equilibrio dinamico, a cui tende costantemente il sistema sottoposto a stress interni ed esterni;
• feedback o retroazione: si riferisce ai processi interattivi tra le parti del sistema, allo scambio di informazioni dentro e tra gli elementi, e alle interazioni tra il sistema e l’esterno. La retroazione è un meccanismo che regola il funzionamento del sistema, mantenendo il suo equilibrio interno attraverso il controllo sulle informazioni ricevute, interpretate e trasmesse, e modificando il proprio comportamento in base alle risposte ricevute dall’esterno. La retroazione può essere positiva o negativa. La retroazione positiva è un’informazione che aumenta la deviazione dalle regole del sistema e favorisce il cambiamento; la retroazione negativa è, invece, un’informazione che riduce la deviazione dalle norme e dai valori e conserva la stabilità del sistema;
• feedforward: regola la selezione di feedback utili al sistema e stabilisce limiti entro cui dare una risposta appropriata;
• equifinalità: eventi differenti possono condurre allo stesso risultato, indipendentemente dalle condizioni iniziali, ma anche risultati diversi possono essere prodotti da cause uguali;
• causalità circolare; concatenazione di eventi causali successivi nella loro interazione continua.

I sistemi familiari possono essere descritti anche da un punto di vista strutturale. Ogni sistema costituisce una struttura unica scomponibile in sottosistemi ( coniugale, genitoriale, figli, fratelli), ed ognuno costituisce a sua volta altri sottosistemi. Ogni individuo è parte di diversi sottosistemi, a seconda dei ruoli e delle funzioni richieste dalla famiglia. Ogni sottosistema ha i propri confini, che definiscono le funzioni dei ruoli, norme e valori di ogni membro della famiglia e dei sistema-famiglia rispetto al suo ambiente. Il grado dei permeabilità dei confini determinerà il tipo di comunicazione all’interno della famiglia e tra il sistema e l’esterno, e dunque la maggiore o minore possibilità per il sistema familiare di cambiare. Ricapitolando, la struttura di una famiglia è formata

• dalle relazioni dei vari sottosistemi tra loro e con la totalità del sistema
• dalle regole e dalle regolazioni che controllano e mantengono l’omeostasi del sistema familiare, e che vengono espresse attraverso le modalità comunicative proprie di ogni famiglia.

Un altro principio molto importante per la descrizione di una famiglia è quello di ciclo vitale. Il ciclo di vita della famiglia è costituito da diverse fasi evolutive. Molto schematicamente, la famiglia inizia con il primo incontro tra i due partners, che può portare al fidanzamento. Quando poi la coppia decide di stabilizzare questa unione, la fase successiva sarà la convivenza oppure, come più spesso accade, il matrimonio e il passaggio dei due membri della coppia a marito e moglie. Tra i progetti dei coniugi ci può essere anche quello di fare dei figli. Con la nascita dei figli i partner non sono più solamente coniugi ma pure genitori.
La fase successiva consiste nella scolarizzazione, un momento estremamente importante nella vita della famiglia perché costituisce la prima modificazione nel rapporto di dipendenza tra il bambino e i suoi genitori. Con la crescita. Il figlio definisce sempre meglio una sua identità che lo caratterizza come una persona capace di gestirsi autonomamente. La richiesta di una progressiva autonomia e indipendenza dai genitori caratterizza la fase di svincolo adolescenziale. Quando il ciclo vitale procede regolarmente, anche i figli saranno liberi di costruirsi una propria vita, di sposarsi, di fare dei figli, così da rendere nonni i loro genitori. E così via.
La coppia, il matrimonio, la nascita di un figlio, il distacco dei figli dai genitori, il ritorno da genitori a coniugi, sono fasi che impongono inevitabilmente trasformazioni nella struttura e nelle comunicazioni della famiglia. Il susseguirsi delle diverse fasi evolutive è contrassegnato da crisi, che non vanno intese in senso patologico, ma secondo il significato etimologico della parola, che proviene dal greco ”crino”, scelta. Il passaggio da una fase all’altra impone alla famiglia scelte differenti, in cui vive dei momenti critici, che possono creare un arresto nel ciclo di vita.
La capacità di adattare la struttura e gli stili comunicativi alle differenti richieste, proprie di ogni fase permetterà alla famiglia di evitare le crisi croniche e la stagnazione.














La conduzione del colloquio



Il counseling è un colloquio a motivazione intrinseca ( Trentini, 1980), la conditio sine qua non è che sia richiesto dal cliente e non subito per imposizione. Questo facilita il versante comunicativo che è la sostanza prima, la “ materia” del colloquio.
La libera percezione dei fatti psicologici è però ostacolata dalla personale implicazione affettiva dell’operatore, dal fatto che sia colpito affettivamente da ciò che l’altro dice o fa, che sia coinvolto emotivamente.
Nel colloquio agiscono inoltre con forza variabili di interazione: in particolare è importante che il counselor sia consapevole di quanto può influire sul cliente anche senza un intervento apparentemente attivo, anche quando sembra limitarsi ad un ascolto e a una registrazione neutrale. Per questo è richiesto un lavoro esperienziale di approfondimento dell’operatore sul proprio Sé, per conoscere le sue tendenze, la sua “ equazione personale”. La personalità del counselor e non soltanto quella dell’esaminato risulterà sempre coinvolta ed in azione nel colloquio.
Nella polarizzazione relazionale che si determina nel campo creato dai due individui in interazione sono possibili molti orientamenti, ma soltanto uno è in grado di svolgere un’azione di facilitazione sulla comunicazione dell’interlocutore e consiste per il counselor nell’ascolto attivo dell’altro e nella modalità della comprensione-facilitazione, che di necessità implica ascolto e accettazione di sé e dei propri vissuti.
Il colloquio è una comunicazione che si basa su uno sforzo di comprensione del counselor nei confronti del cliente che non è reciproco, dal momento che il cliente è centrato al contrario su uno sforzo di comprensione e di chiarificazione di se stesso.
Nel primo colloquio è opportuno specificare che la relazione che si intende istituire, a patto che il cliente sia d’accordo, è un colloquio di comprensione/chiarificazione basato sulla tecnica della riformulazione.
La riformulazione consiste nel provare a ridire con altre parole quello che il cliente ha appena espresso, perseguendo un intento riassuntivo o chiarificatore ed ottenendo l’approvazione del cliente. Sarà il cliente a parlare maggiormente e il counselor interverrà solo di tanto in tanto con riformulazioni. il counselor deve chiedere al cliente di correggerlo e di illuminarlo tutte le volte che non avendo ben compreso ciò che il cliente ha detto, si potrebbe trovare a riformulare erroneamente. Sottolineare la necessità di questa fiducia reciproca è importante perché significa chiedere ad entrambi i soggetti di focalizzare l’attenzione su una “ regola del gioco” basilare. Il realtà questa fiducia si conquisterà poi definitivamente sul campo, man mano che la relazione di aiuto procede, ma chiarire questo aspetto significa intraprendere il cammino con il piede giusto.
Nella fase iniziale del primo incontro spesso giocano un ruolo di un certo peso alcuni imbarazzi , paure o fantasmi del cliente. Ciò che è ignoto di per sé può essere assimilato a ciò che è oscuro e l’inizio di un colloquio è vissuto dal cliente spesso come un’incognita. Aprire me stesso a l’altro significa permettergli di conoscermi, abbassare le mie difese e dunque espormi, diventare vulnerabile. Questo procedimento di apertura può essere vissuto dal soggetto con una componente ansiogena. La risposta migliore che può fornire il counselor è la sua profonda accettazione incondizionata, e la sua comprensione empatica.

Nel vivo del colloquio

Essere centrati sulla persona in questa fase dell’incontro significa prima di tutto focalizzare l’attenzione sul “ vissuto” del cliente nell’hic et nunc e non sui fatti. Significa interessarsi e polarizzarsi sulla persona in toto, su ciò che il cliente sta comunicando anche con il linguaggio non verbale, chiedendosi quali emozioni sta sperimentando, non limitarsi al significato razionale delle sue parole o semplicemente al racconto degli avvenimenti e delle situazioni che ci sta fornendo e, meno che mai in questa fase, ai legami di causa-effetto.
L’interesse per il problema presentato non deve mai sopravanzare l’interesse per la persona che di quel problema si fa portatrice. Non deve esistere il problema nella valutazione oggettiva che se ne può fornire, quanto piuttosto interesse e comprensione per come la persona lo sta vivendo.
In seconda istanza, man mano che l’intervento di counseling procede nel tempo, essere centrati sulla persona comporterà sempre più attenzione al problema per come viene riconosciuto dal cliente, tentativi di chiarimento e di individuazione dell’obiettivo concreto da perseguire e facilitazione di un processo decisionale essenzialmente autogestito.
In pratica entrare nel vivo del colloquio significa non solo ascoltare le parole pronunciate dal cliente, ma anche quelle che non può o non riesce a pronunciare. È ascolto attivo, da condursi con attenzione e senza distrazioni, cogliendo contemporaneamente alle parole tutti i segnali non verbali, ascoltando l’altro non soltanto attraverso il senso dell’udito ma anche attraverso il senso della vista, stimolando tutto il nostro corpo, ogni centimetro di superficie della nostra epidermide, a diventare ricettivo.
L’abitudine a cogliere ogni minimo segnale e ad amplificarlo perché risulti decodificabile finisce per essere – volendo ricorrere ad una metafora – la vera mappa, al di là delle parole, mentre navighiamo nel mare della comunicazione, per giungere al tesoro comunicativo. In questa fase del colloquio bisogna facilitare la comunicazione, essere congruenti, essere empatici, essere pazienti, fare riformulazioni attente e pertinenti, mantenere un atteggiamento di accettazione, effettuare un attento lavoro di monitoraggio di se stessi, osservarsi nella relazione anche attraverso le reazioni del cliente, verificare sempre l’efficacia della trasmissione empatica, rispettare il soggetto nel suo sistema valoriale e nel suo vissuto oltre che nelle sue scelte.

Ritiro e chiusura del colloquio

È necessario che il cliente sia a conoscenza della durata dell’incontro (cinquanta minuti al massimo). Chiudere un incontro non è sempre facile, in particolar modo se la relazione è ben avviata. Bisogna cercare di cogliere il momento giusto, per esempio una riformulazione ben riuscita attraverso la quale il cliente si sente completamente compreso e da questa comprensione trae forza, oppure una riformulazione di un atteggiamento non verbale del cliente che ha denotato una sua stanchezza, oppure una riformulazione particolare con richiesta al cliente di rimanere in contatto durante la settimana, se lo desidera, fino all’incontro successivo.
È necessario che il counselor sia sempre congruente, nel caso, per esempio, in cui il counselor sia molto stanco e la fine del colloquio rappresenta un motivo di esultanza, è basilare che comunichi la sua stanchezza al cliente ed il livello di affaticamento da cui si sente gravato e che cerchi sempre di rimanere in contatto autentico e profondo, scusandosi sinceramente per questa sua situazione fisica. In ogni modo, prima di salutare il cliente, è indispensabile che abbia ottenuto anche il suo ritiro dal colloquio.

Rischi nella conduzione del colloquio

Non aver compreso pienamente il significato del termine congruenza, non conoscere le leggi della dinamica interpersonale, partire dall’assunto, pur valido, dell’importanza di essere se stessi nella relazione, potrebbe generare confusione con il ricorso allo spontaneismo.
La conduzione del colloquio è un procedimento ben preciso, che necessita dell’acquisizione di competenze tecniche e di un’opportuna formazione. È indubbio che nell’impostazione rogersiana si parta dal saper essere nella persona, dalle sue qualità personali di genuinità, coerenza, sensibilità, disponibilità, creatività, che in ogni caso non devono mai essere date per scontate, ma verificate continuamente e sottoposte ad un meticoloso lavoro di “ labor limae”.
Il counseling, proprio per le sue caratteristiche d’intervento, presuppone quindi una conoscenza di se stessi, un lavoro conoscitivo e di approfondimento che ciascun counselor deve essere disposto a fare in prima persona sui propri tratti di personalità, per non cadere tout court in facili meccanismi proiettivi.
La padronanza della metodologia d’intervento non può essere disgiunta comunque, proprio nella stessa visione di Rogers, dal saper fare, inteso come possesso di competenze teoriche e pratiche, ciascuna delle quali oggetto di formazione precisa e puntuale. Per acquisire questa metodologia è necessario un training di formazione ed un’accurata preparazione. Anche in seguito, quando la formazione è terminata, per poter realizzare o mantenere un counseling qualitativamente valido ed efficace, è indispensabile sottoporsi periodicamente alla supervisione pratica, sia individuale che di gruppo.

Codice di etica professionale

I termini del contratto di counseling devono esser chiariti all’utente prima che le consulenze inizino. Nel caso dei successive revisioni dei termini, bisogna accordarsi in anticipo su ogni cambiamento.
Il counseling è un’attività in cui i valori di base sono l’onestà, l’imparzialità e il rispetto. Durante il counseling vanno presi tutti i provvedimenti necessari alla tutela dell’utente. Il Counselor deve quindi attenersi ad un codice di etica e deontologia professionale disciplinata dalla S.I.co. ( società italiana di counseling).
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GIOVANNA DI MARTINO





BIBLIOGRAFIA:

Ecopsicologia di Marcella Danon Editore Urra

Manuale di Psicoterapia di E.Giusti, C. Montanari, G.Montanarella Editore Francoangeli
integrata

Counseling di Annamaria Di Fabio Editore Giunti

rivista
Il counselor Marcella Danon

lunedì 27 settembre 2010

le SETTE regole d'oro per saper ascoltare

1 NON AVERE FRETTA DI ARRIVARE A DELLE CONCLUSIONI. LE CONCLUSIONI SONO LA PARTE PIU’ EFFIMERA DELLA RICERCA.
2 QUEL CHE VEDI DIPENDE DAL TUO PUNTO DI VISTA. PER RIUSCIRE A VEDERE IL TUO PUNTO DI VISTA, DEVI CAMBIARE PUNTO DI VISTA.
3 SE VUOI COMPRENDERE QUEL CHE UN ALTRO STA DICENDO DEVI ASSUMERE CHE HA RAGIONE E CHIEDERGLI DI AIUTARTI A VEDERE LE COSE E GLI EVENTI DALLA SUA PROSPETIVA.
4 LE EMOZIONI SONO DEGLI STRUMENTI CONOSCITIVI FONDAMENTALI, SE SAI COMPRENDERE IL LORO LINGUAGGIO. NON TI INFORMANO SU COSA VEDI, MA SU COME GUARDI. IL LORO CODICE E’ RELAZIONALE E ANALOGICO.
5 UN BUON ASCOLTATORE E’ UN ESPLORATORE DI MONDI POSSIBILI. I SEGNALI PIU’ IMPORTANTI PER LUI SONO QUELLI CHE SI PRESENTANO ALLA COSCIENZA COME AL TEMPO STESSO TRASCURABILI E FASTIDIOSI, MARGINALI E IRRITANTI, PERCHE’ INCONGRUENTI CON LE PROPRIE CERTEZZE.
6 UN BUON ASCOLTATORE ACCOGLIE VOLENTIERI I PARADOSSI DEL PENSIERO E DELLA COMUNICAZIONE. AFFRONTA I DISSENSI COME OCCASIONI PER ESERCITARSI IN UN CAMPO CHE LO APPASSIONA: LA GESTIONE CREATIVA DEI CONFLITTI.
7 PER DIVENIRE ESPERTO NELL’ARTE DI ASCOLTARE DEVI ADOTTARE UNA METODOLOGIA UMORISTICA. MA QUANDO HAI IMPARATO AD ASCOLTARE, L’UMORISMO VIENE DA SE’.