mi piace leggere, viaggiare e il mare in tutte le stagioni. credo fermamente in tutte le ragioni dell'essere, nel suo manifestarsi e nella profonda bontà dell'animo umano.

mercoledì 24 novembre 2010

PANTALONI A VITA BASSA

“Vieni entra. Sei puntuale!”.
Così disse la mia prof.ssa di italiano delle medie.
Andai da lei quel pomeriggio, dietro suo invito ricevuto la mattina a scuola. Entrai titubante e mi guardai intorno: tutto era spazioso, lindo e profumava di legno. Il pavimento di marmo lucido rifletteva le pareti di un colore tenuo e caldo.
“accomodati pure “ mi disse facendomi cenno di entrare in un grande salone luminoso.
Ero intimorita. Avevo l’impressione che muovendomi avrei rotto un incantesimo. La luce che entrava dalla grande finestra illuminava le vetrine di un grande mobile antico in legno massello. Mi guardavo intorno soggiogata da tanta bellezza. Di certo non assomigliava affatto all’ambiente dove vivevo io, tutto piccolo e sporco.
“prendi pure le caramelle” disse, porgendomi un contenitore di cristallo pieno di caramelle di zucchero che luccicavano nei loro involucri colorati.
Il suo tono era gentile e carezzevole. La sua voce molto calma.
Tutto era calmo in quella casa. Non come a casa mia dove le urla la favevano da padrone.
Mi sentivo imbarazzata ma nel contempo felice di poter respirare un’aria così lontana dalla mia realtà.
Intanto la mia prof.ssa parlava, sempre con il suo tono dolce e tranquillo che avvolgeva i miei pensieri. Qualcosa arrivava sotto pelle. Sentivo che di quella signora, che assomigliava alla fata madrina di cenerentola, mi potevo fidare.
Ma fino a un certo punto. Il muro che avevo innalzato tra me e gli altri era sempre lì, invisibile e impenetrabile.
“…ascolta Alice, volevo dirti qualcosa che potrebbe offenderti e io non vorrei mai ferirti in nessun modo…” così continuava la mia prof.ssa quando rivolsi di nuovo l’attenzione a quello che stava dicendo.
Offendermi?, la dolce e buona signora parla di offendermi? E come potrebbe? non riuscivo a comprendere.
“vedi, mia figlia ha dei pantaloni che non mette più perché fuori moda, sai sono a vita bassa andavano un po’ di tempo fa, adesso non si mettono più. Però sono come nuovi, non li ha mai messi.”
Parlava di pantaloni di sua figlia. Sua figlia viveva sicuramente in quella casa. E certo, era sua figlia!
Si sedeva in quelle morbide poltrone tutte le volte che voleva! Vedeva quella luce splendida tutti i giorni! Che ragazza fortunata!.
“ posso andare in bagno?” chiesi.
“ ma certo!, è in fondo al corridoio, se vuoi ti accompagno!”mi rispose la dolce signora.
Mi accompagnò in un ambiente altrettanto luminoso e pulito. Mi fece entrare e mi disse “ ti aspetto in salone”. E si allontanò chiudendo silenziosamente la porta. Girai lo sguardo tutt’intorno lentamente senza avanzare di un passo. Come era bello! Sembrava uno di quei bagni che si vedono nei film, con le piante e tutto il resto. Di certo sua figlia faceva il bagno in quella splendida vasca con l’acqua calda e il bagno schiuma profumato!.
Feci la pipì e dopo mi affacciai alla finestra che dava sul cortile interno del palazzo di 5 piani. Certo le cose viste da lassù hanno tutta un’altra aria! Pensai tirando lo sciacquone. Volsi lo sguardo allo specchio lucido e vidi riflessa una bimba di 10 anni un po’ emaciata e pallida con i capelli di un castano smorto, corti e scarmigliati e un vestito un po’ sporco e logoro di cui mi vergognai subito. Cercai di riassettarmi alla meglio. Tanto non sarei mai riuscita a essere all’altezza di quell’ambiente e continuando a vergognarmi uscii. Chiusi il più lentamente possibile la porta per non far rumore e anche perchè non sapevo come chiudere una porta funzionante e nuova. Raggiunsi la prof.sa in fondo al salone. Quando mi vide mi rivolse un sorriso invitandomi a sedere. Non mi faceva mai troppe domande. Parlava per lo più lei, quindi continuò dicendo” se questo dovesse offenderti o dovesse offendere la tua mamma fatemelo sapere.” Non afferravo precisamente cosa volesse dire ma vedevo il suo viso preoccuparsi e questo non potevo sopportarlo soprattutto se pensavo potessi essere io l’oggetto della sua preoccupazione.
“no, no non mi offende, va bene!” risposi in fretta.
“ bene, allora li vado a prendere così te li faccio vedere”.
Ne approfittai per avvolgermi ancora in quell’aria tranquilla e serena. Mi guardai intorno ancora incuriosita dalla casa.
Il mio sguardo si posò sul mobile dell’ingresso dove giacevano un paio di guanti, posati ordinatamente. Erano i guanti che la dolce signora indossava per venire a scuola. Quando entrava in aula, dopo aver salutato tutti gli studenti, s’incamminava verso la scrivania e chiedendoci come era andata la mattinata si toglieva i guanti lentamente e con cura li poggiava sopra la scrivania, dove rimanevano sino alla fine della lezione. Io, durante la mattina di lezione tra una lettura e una spiegazione, ogni tanto li guardavo, lì poggiati, in pelle nera con la loro pelliccetta intorno ai polsi, che dava l’aria di essere così morbida. Il mio sguardo si posava con insistenza su di essi: morivo dal desiderio di poterli sfiorare!.
E Adesso erano lì, a portata di mano e non resistetti. Mi avvicinai, furtiva, al mobile dell’ingresso guardandomi intorno. ero ad un passo, allungai la mano e…. li toccai.
Come erano morbidi!
Proprio come avevo immaginato!
Strinsi tra le dita la soffice pelle nera, palpandola delicatamente.
La pelliccetta all’interno, rasa e bianca, era di morbidissimo pelo di lapin. Provai qualcosa di così intenso che chiusi gli occhi.
Che sensazione bellissima.!
Li riaprii immediatamente con un senso di trasgressione.
Dopo un attimo li rilasciai andare in fretta sul mobile per paura di essere scoperta. Ritornai furtiva nel salone e ancora estasiata da ciò che avevo provato, aspettai inebetita il ritorno della signora.
Poco dopo fu di ritorno con in mano un paio di jeans nuovissimi.
Continuò a scusarsi e a invitarmi ad andarla a trovare ogni qualvolta lo volessi.
Io dal canto mio era ancora stordita dalla nuova sensazione che la pelliccetta aveva lasciato sulle mie dita. Ammutolita e ancora in estasi, presi i pantaloni, ringraziai e con voce fievole chiesi
“ veramente posso venire a trovarla ancora?”
“certamente! “ rispose sempre con il suo tono gentile e premuroso. Dal mio viso sentii spuntare un sorriso. “Adesso vai che tua mamma ti aspetta” disse la dolce signora. Mi accompagnò alla porta, l’aprì e mi salutò affettuosamente. Uscii e dopo un ultimo sguardo presi a scendere le scale. “ A domani” disse la prof.sa sulla soglia e poi richiuse dolcemente la porta. Lentamente e ancora con un sorriso ebete sulle labbra, continuai a scendere i gradini delle scale, in mano la busta con dentro i pantaloni a vita bassa.

Giovanna Di Martino

mercoledì 17 novembre 2010

IL VOLANTINO

La ragazza entrò in un bar, era depressa. Si guardò attorno con sguardo vacuo. C’erano gli stuzzichini sul bancone, residuo degli happy hours, pubblicità, volantini.
Afferrò un volantino, lo lesse. Nella sua mente le parole scorrevano come in un film con i sottotitoli. Ma non erano le parole del volantino quelle che vedeva. Erano parole del suo recente passato. Qualcuno gliele aveva urlate nelle orecchie e le facevano male, ferivano.
Rigirò il volantino tra le mani. Le lacrime volevano scorrere libere, ma non poteva. La testa le scoppiava. Tanti pensieri alla rinfusa alla ricerca di una risposta.
Avrebbe voluto gridare al barista “ mi dici tu cosa devo fare? Aspetto un bambino da un uomo insopportabile e crudele, ma è il padre del mio bambino e mio figlio ha bisogno di un padre!
Rispondimi, dammi tu la risposta, cosa devo fare?”. Il ragazzo del bar la fissò e dopo qualche secondo ripetè “desidera?”.
Si fissarono, e dopo un tempo interminabile, la ragazza disse “ un caffè!”.
Incasso le spalle e con un gesto lento piegò il volantino e lo mise in tasca. Bevve il suo caffè. Pagò alla cassa e uscì nell’aria gelida della sera, immersa nella sua solitudine e con la sua domanda mai posta.
Quante volte ci siamo chiesti “ ma come faccio a risolvere questo problema? Chi è che mi può aiutare?” e se non abbiamo amici, parenti di cui ci possiamo fidare, con cui poterne parlare, rimaniamo soli con i nostri dubbi, le nostre paure che crescono, crescono fino a sovrastarci.
E quando la nostra solitudine diventa spessa e densa come melassa ci ritroviamo in un mondo dove gli altri sono meteore che sfrecciano tutto intorno a noi e non riusciamo a capire cosa accade e perché scivoliamo sempre più giù.
Giù è sempre più buio, non si vedono più i contorni, tutto è uguale: nero!
Qualche volta si intravede una luce in lontananza che si avvicina sempre di più fino a prendere forma. È il viso di qualcuno, il più delle volte uno sconosciuto, che dice “ ti posso aiutare?”
Lo guardi. Rimani perplessa. Non rispondi.
E la luce si allontana, fino a sparire un’altra volta. Non riesci a capire cosa è successo. Il buio lo conosci meglio, è la condizione nella quale ti trovi più spesso.
Ma poi accade qualcosa.
Un’altra piccola luce si avvicina, diventa sempre più splendente.
È un altro viso che ti chiede “ ti posso aiutare?”
Non rispondi. Ma il “viso” non va via.
È lì, aspetta, non va via.
Ti ascolta e aspetta.
È come se sapesse della tua titubanza a uscire dal buio. È come se sapesse che hai bisogno di tempo, di spazio.
E aspetta.
A quel punto ti rendi conto che è lì per te, è disposto ad ascoltarti. Non è noioso quello che hai da dire. Non dai fastidio.
Azzardi a dire qualcosa. Qualsiasi cosa, anche cose stupide.
Ma egli ascolta ancora. Anzi ti ascolta veramente. Te ne accorgi, perché qualcosa dentro di te si riscalda, si distende.
Ascolta le cose che non dici, le emozioni represse che aspettano questo momento per farsi sentire.
Cose che non sai nemmeno di avere. Ma è tutto lì dentro di te, e c’è un gran caos, perché ogni cosa vuole il suo spazio e la sua voce. E allora urlano tutte assieme, e nella tua testa c’e tanto rumore.
“Il viso” tutto questo lo sa. Non si spaventa se piangi, se gridi, se non parli.
Egli aspetta. E ti ascolta!
Allora ti rendi conto che ogni cosa dentro di te ha un nome: rabbia, tristezza, melanconia, disperazione, angoscia.
Ma anche dolcezza, tenerezza, gioia.

Sono passati quattro anni, la ragazza ha scoperto come non essere più sola.
Da’ ascolto alle sue emozioni. Ha scoperto che qualcuno può insegnarle come imparare a sentire.
A dar voce a quel tumulto interno.
Qualcuno che crede che le persone siano importanti. Tutte. Compresa lei.
Certo i suoi problemi non si sono dissolti. Ma adesso sa che ci sono tanti modi di vedere le stesse cose. Soprattutto se si ha la consapevolezza che le risorse per cambiare visione sono dentro ognuno di noi, e che ognuno di noi è un mondo. Un mondo in evoluzione ed autoattualizzante.
“ …Sia che si parli di un fiore o di una quercia, di un verme fangoso o di uno splendido uccello, di una scimmia o di una persona, credo che faremmo la cosa migliore a riconoscere che la vita è un processo attivo, non passivo. Sia che lo stimolo provenga dall’interno o dell’esterno, sia che l’ambiente sia favorevole o sfavorevole, i comportamenti di un organismo possono essere compresi in termini del mantenimento, dell’arricchimento e della riproduzione di se stesso. È questa la natura stessa del processo che definiamo vita. Una tendenza del genere è all’opera in ogni momento. E di fatto , solo la presenza o l’assenza di questo processo totalmente direzionato ci consente di dire se un organismo è vivo o morto…” (1).

La ragazza ha trovato uno spazio, un tempo, in cui tutto questo è riconosciuto da altri come lei. Persone che credono in quell’ascolto empatico capace di far germogliare quella forza preponderante che è la vita.
Entra nella stanza. Si guarda intorno e vede tanti “volti”. Sono lì per lo stesso motivo. Per imparare.
Imparare un modo di essere.
Gli altri membri del gruppo sono già tutti lì. Sorride, saluta i suoi amici. Oggi c’è lezione, come da un anno ormai.
In quest’ultimo anno trascorso, sono accadute tante cose. L’ ambiente protetto, dove hanno luogo le lezioni, ha permesso a tutti di rilassarsi quel tanto da abbandonare, almeno per un po’, alcune difese.
È contenta di essere lì, insieme a loro, a sperimentare ciò che avviene quando una persona viene messa in condizioni di concentrare l’attenzione sui vari livelli di cui è composto il suo mondo interiore. Ha visto e sperimentato personalmente le tecniche della risposta riflettente. Ciò che più l’ha colpita è quello che scatena il risentire, ripetuta dall’altro, la stessa parola o la stessa espressione detta poco prima. L’altro non sa a cosa si aggancia quella data espressione ma sa che se abbiamo usato quel termine e non altri è perché, sicuramente, quello è il termine che fa vibrare qualcosa dentro di noi. E’ questa la magia delle parole. E succede qualcosa di straordinario.
L’esperienza di uno si propaga, ad effetto onda, sugli altri. Ciò che sta provando una persona in un dato momento passa come per osmosi a tutto il gruppo. Le persone sentono di essere in contatto.
“Esse lo sperimentano come una tensione verso un’esperienza trascendente di unità”. Così quando si forma un clima psicologico che permette all’individuo di essere – si tratti di clienti, studenti, lavoratori o di persone in un gruppo- non siamo coinvolti in un evento casuale. Attingiamo ad una tendenza che permea tutta la vita organica – una tendenza a divenire tutta la complessità di cui è capace l’organismo…..Su una scala più ampia siamo in armonia con una potente tendenza creativa che ha dato forma al nostro universo, dal più piccolo fiocco di neve alla galassia più grande, dall’umile ameba al più sensibile e dotato essere umano. E forse stiamo toccando il limite estremo della nostra capacità di trascenderci, di creare direzioni nuove e più spirituali nell’evoluzione umana”(1).
La strada che porta a questo sentire è disseminata di vicoli ciechi. Occorre ascoltare l’eco che ogni atteggiamento dell’altro fa risuonare dentro di noi, discernere la nostra voce da quella dell’altro. E quando abbiamo preso un po’ di dimestichezza con questo meccanismo, si riesce a sentire l’entità gruppo, si percepisce l’essere insieme e l’individualità. Certo, se c’è uno scopo comune, tutto questo accade più facilmente giacchè le energie del gruppo fungono da catalizzatore. Ma è anche vero che questo può avvenire ogni volta che c’è un vero con-tatto con un altro individuo.
Creare questo con-tatto è lo scopo del nostro divenire.
Quali sono i presupposti affinchè ciò avvenga? È necessario un rapporto permissivo, non direttivo. Rispetto e accettazione incondizionata della persona. Comprensione empatica più dei sentimenti che dei fatti che la persona porta.
Durante questo anno, la ragazza ha potuto vedere come queste cose siano possibili.
Che l’autore di questo pensiero, Rogers, ha dato un grande contributo alla scoperta dell’animo umano.

Ecco sono tutti pronti a vivere un’altra splendida avventura, un’altra giornata di lezione, di lavoro qualche volta dolorosa, spesso faticosa, ma sempre coinvolgente e formativa.
Ogni insegnante è atteso con curiosità e aspettativa.
La ragazza si guarda intorno e aspetta. È pronta a esplorare un altro lato di se stessa.
Parla, ride, scherza con i suoi amici e distrattamente si mette le mani in tasca, ne estrae un volantino un po’ spiegazzato. È lì da un bel po’ di tempo.
Lo dispiega e comincia a leggerlo:
Scuola di Counseling familiare e dell’età evolutiva..…………






Giovanna Di Martino
Ottobre 2006 - 1° anno di scuola di counseling familiare e dell’età evolutiva di Piera Campagnoli – Gorgonzola.





(1) Rogers, un modo di essere

giovedì 11 novembre 2010

la capacità negativa

capacità negativa
(negative capability)








Il poeta inglese John Keats, in una lettera del 1817, ha chiamato capacità negativa il saper «stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impaziente di pervenire a fatti e a ragioni». Lanzara [1993] la descrive come la capacità di:
essere nell'incertezza, di farsi avvolgere dal mistero, di rendersi vulnerabili al dubbio, restando impassibili di fronte all'assenza o alla perdita di senso, senza volere a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o a motivi certi, [di] accettare momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione, e di cogliere le potenzialità di comprensione e d'azione che possono rivelarsi in tali momenti. [...] questo stato di sospensione [...] dispone a lasciare che gli eventi seguano il loro corso, restando in vigile attesa, e a lasciarsi andare con essi senza pretendere di determinarne a priori e a tutti i costi la direzione, il ritmo, o il punto d'arrivo. [Lanzara, 1993]

La capacità negativa consente di prestare attenzione ad aspetti delle situazioni che altrimenti verrebbero trascurati. Per questa ragione, è «fonte di un particolare tipo di agire: un agire che, per così dire, nasce dal vuoto, dalla perdita di senso e di ordine, ma che è orientato all'attivazione di contesti e alla generazione di mondi possibili» [Lanzara, 1993]. Essa si contrappone a quella che si potrebbe chiamare incapacità positiva che, invece, «premia la prestazione specialistica, l'orientamento al risultato, il successo a breve termine, la conformità a norme e a modelli canonici di comportamento e l'acquisizione di certezze» [Lanzara, 1993]. Vi è, infatti, una produttività frutto dell'ordinata adesione a modelli, aspettative, stereotipi, schemi socialmente consolidati; esiste però una creatività che nasce dalla capacità di stare produttivamente nel disordine o nel "far senza", nello strare nella mancanza di qualcosa alla quale si rinuncia per consentire l'apparizione del nuovo.

bisogna vedere se l’ordine che io mi do nasca dalla capacità di sostare nel disordine. C’è un ordine generato creativamente con tutta la pazienza di sostare nel disordine, capacità negativa, accettazione della novità, complessità: quello sarà un ordine costruttivo ed appropriato. Se invece un ordine è generato dall’impazienza è difensivo: lo produco in quanto non ce la faccio più a stare in una situazione di disordine. [Pagliarani, 1993]
La parola decisiva per me è la parola mancanza [...] la mancanza può essere il grembo da cui nasce quello che prima non era mai stato visto; la mancanza può essere l'abisso, il buio, lo smarrimento [Pagliarani, 1985]

Se le organizzazioni sono anche «il mezzo di cui i loro singoli membri si servono per rafforzare i meccanismi individuali di difesa contro l’ansia e, in particolare, contro il riaffiorare delle primordiali ansie paranoidi e depressive» [Jaques, 1955] e se - come illustra ampiamente lo stesso Jaques nel brano riportato - sono proprio le attività più creative (e nelle quali è più alta la responsabilità individuale) a generare più facilmente ansia, allora la capacità negativa è necessaria per affrontare l'incertezza e l'ambiguità legate alle situazioni organizzative più critiche, ad esempio le decisioni nel corso di processi di cambiamento.

La messa in opera del principio di realtà conduce alla gratificazione differita e non a quella immediata, comportando l'impiego della discrezionalità (nel senso del giudizio, e non nel senso corrente dell'essere discreto) al fine di determinare quali itinerari d'azione porteranno al miglior risultato finale. Occorrono perciò discriminazione e giudizio, nonché presa di decisioni.
La decisione contiene in sé l'incertezza circa la bontà e richiede perciò la capacità di tollerare tale incertezza in attesa dell'esito finale che può anche essere un fallimento. Va notato però che questa incertezza ha una sua peculiare qualità. L'uso di discrezionalità dipende da funzioni psichiche inconsce e consce, dalla capacità di sintetizzare idee e intuizioni inconsce e di portarle poi al livello della consapevolezza. Non c'è da meravigliarsi perciò se nel cuore di questa incertezza troviamo l'ansia mobilitata dal fatto che il successo dipende dalla coerenza e dalla disponibilità della vita psichica inconscia [...]
Il conformarsi a regole, disposizioni e ad ogni altra componente prescritta del lavoro richiede semplicemente il possesso di conoscenza (o si sa o non si sa), ma non richiede lo sforzo psichico della discrezionalità e della decisione, con la congiunta esperienza emotiva dell'ansia. [...]
Più lungo è il periodo [entro il quale si esercita discrezionalità rispondendone in prima persona] e maggiore sarà il materiale inconscio da rendere conscio, più lungo sarà lo stato di incertezza e d'ansia da tollerare, relativamente sia all'esito finale sia alle scelte e ai giudizi effettuati. [Jaques, 1970]







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Jaques E. [1955], Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva, in Klein M. et alii (a cura di), Nuove vie della psicoanalisi, Il Saggiatore, Milano, 1966.
Jaques E. [1970], Lavoro, creatività e giustizia sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.
Lanzara G.F., Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1993.
Pagliarani L., Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1985.
Pagliarani L., Violenza e bellezza, Guerini e Associati, Milano, 1993.

mercoledì 10 novembre 2010

COME LE STELLE - PENSIERI DI UN MALATO DI CANCRO

La sera sta allungando la sua mano.
Vedo le sue dita penetrare nella finestra della mia stanza allungando le ombre, spingendo verso di me un senso di solitudine che per quanto faccia so che mi prenderà dentro, maltrattandomi la notte.
Le visite anche per oggi sono finite e io posso riporre il mio coraggio nel cassetto.
Fingere adesso non serve.
Mia moglie mi ha salutato con un bacio e di quel contatto conserverò il ricordo fino alla prossima visita.
Non ho potuto abbracciare la mia bambina però, e questo mi fa male più della malattia.

Le luci si spengono e per me inizia il periodo del riposo notturno o della dannazione.
Le luci del corridoio filtrano ovattate, e infermieri passeggiano per i corridoi, conversando.
Sento pezzi dei loro discorsi, sono squarci di vita. Penso che non molto tempo fa, avevo anch’io le stesse preoccupazioni e i loro sorrisi.
Anche nelle mie parole vi era la certezza di un tempo da vivere.
Un tempo che sembra sempre infinito quando non si hanno ancora 37 anni, una moglie giovane e una figlia piccola da crescere.
Ma il destino ha un modo tutto suo di intendere la vita e quando decide di portarti il conto non puoi rifiutarti di pagare.
Il prezzo che devo pagare io al destino è davvero molto alto, e ha un nome:
Linfoma non Hodging lo chiamano, è una forma di cancro che non lascia molto spazio alla speranza.
Nel mio caso la speranza si è dissolta con il tempo che del destino ne è l’esattore.
Mi ricorda ogni giorno passato e non scorda di segnarsi nemmeno un giorno.
So che non avrò molto da vivere e per quanto faccia mi rendo conto di non essere pronto per l’ultimo viaggio.
Anche se il bagaglio è pronto.

La notte pesa e dormo sempre di meno.
La memoria sfoglia il suo personale album e mi ricorda come ero.
Lo specchio mi dice come sono.

Avrei voglia di vivere ancora un po’ del mio tempo migliore, di quando giravo in moto senza meta assaporando la vita e la libertà di una Roma che di sera mi è sempre sembrata bellissima.
Vorrei riappropriarmi della mia allegria, quella che tutti mi riconoscevano venendone contagiati.
Eppure so ancora ridere e sento il calore della vita dentro.
Mi attacco spesso a quei brandelli che mi sono rimasti addosso e cerco di comprendere ogni istante che mi viene concesso.
Anche la sofferenza ha un senso e anche questi giorni sono comunque vita.
So di lottare contro un esercito troppo grande e forte, ma non ho mai pensato di deporre le armi anche se l’epilogo è scritto.

Quello che faccio fatica ad accettare è il distacco da mia figlia e dalle persone che amo.
Adoro la mia bambina, sono pazzo di lei.
Vorrei poterla tenere ancora per mano, portarla a passeggio in un parco e raccontarle quelle storie che le sono sempre piaciute tanto.
Le avevo promesso che un giorno l’avrei portata con me in moto, mettendogli un casco a fiori, portandola a visitare luoghi incantati. Le ho promesso che l’avrei condotta in montagna, in alto, ma così in alto da vedere il nido delle aquile e seguirne il volo.
Quando penso che non potrò osservare il suo cammino, aiutarla nelle difficoltà della crescita e che non potrò vederla diventare donna, osservando il suo profilo cambiare…
Quando penso a questo sento dentro qualcosa che fa male.

Chissà cosa gli resterà di me crescendo, se i ricordi che possiede resisteranno al tempo o andranno man mano sfuocando, fino a perdersi.
Mi chiedo se la mia voce resterà in lei o sarà eco destinato a sovrapporsi e confondersi tra migliaia e migliaia di rumori.
Mi chiedo cosa conserverà e che cosa penserà di suo padre un giorno.

Oggi mia moglie mi ha aiutato ad alzarmi e ho potuto vedere dalla finestra della mia stanza la mia piccola giocare in giardino.
Sembrava un puntino colorato e quando ha alzato il suo faccino al cielo e mia ha fatto ciao- ciao con la manina, non sono riuscito a trattenere la lacrima.
L’amore a volte si scioglie.

Ho guardato mia moglie e le ho detto che mi dispiace.
Mi dispiace lasciarla sola, abbandonare lei e mia figlia, mi dispiace interrompere tutti i progetti che avevo con lei, che non era questa la vita che avevo immaginato.
Lei mi ha rincuorato, mi ha stretto la mano e mi ha detto che tutto andrà bene, che sarei tornato a casa con loro, ma io so che non è vero.
Anche mia moglie lo sa.
Ci sono sempre più silenzi tra di noi, i discorsi a volte escono a fatica e le parole pesano.

Non è facile per lei e so che quando mi guarda vede la malattia che porto addosso e i suoi inequivocabili segni.
Non ho più capelli, sono debole e ultimamente sono dimagrito moltissimo.
Ho un occhio perennemente gonfio che mi sfigura il volto.
Ma lei è qui e non mi fa mancare il suo amore, anche se sento la sua sofferenza.
Sento di amarla e ammiro il suo coraggio.
A volte vivere è più difficile che morire.

Con lei spesso parlo di Dio e di un mondo diverso che presto andrò a scoprire.
Me lo immagino l’aldilà, ci penso spesso ultimamente, in un modo tutto mio.
Spero che mi diano il permesso di vedere mia moglie e mia figlia nel luogo dove andrò.
Quando parlo con lei di questo argomento, cambia spesso discorso; so che non ne vuole parlare, cercando di esorcizzare la paura che inevitabilmente l’assale.
Quasi volesse rimandare l’inevitabile, allontanarlo dalla mente, magari per un alto poco.

La capisco, ma io ne ho bisogno. Ho bisogno di lasciare uscire quello che ho dentro, svuotare gli angoli colmi di angoscia e trovare la mia serenità.
Ho bisogno di far fluire il mio dolore, renderlo liquido ed espellerlo.
Ho bisogno di sentirmi leggero.

Ora sento gli occhi pesanti.
Non so se sono le medicine che prendo, la debolezza dovuta alla malattia, ma mi sento stremato.
Il sonno è alle porte e lo attendo come una benedizione.
Riesco a dormire poco, ma sono sonni profondi, senza sogni.

E’ in questi momenti, pochi minuti prima di scivolare nel sonno che penso a se riaprirò gli occhi e vedrò la luce di un nuovo giorno.
Mi chiedo se il bacio che mi ha dato mia moglie è stato l’ultimo o avrò ancora il conforto delle sue labbra e se la manina protesa di mia figlia è stata levata per l’ultimo saluto.


Volto il mio sguardo verso la finestra e mi godo il pezzo di cielo che posso vedere da qui.
Ci sono tantissime stelle questa sera, e mentre le guardo penso che la vita sia davvero meravigliosa e che qualcosa ho fatto in questa vita.
Penso che tutto deve avere un senso anche se questo a volte è difficile da comprendere.

Le stelle brillano o forse sono solo i miei occhi, ma mi sembrano più vicine del solito stasera.
Invidio il senso di eterno che si portano addosso.

Vorrei essere come loro. (racconto di Stefano Borghi)

lunedì 25 ottobre 2010

In questi giorni siti e blog stanno riprendendo una specie di piccolo teorema che Chomsky ha espresso sulla la manipolazione dell’informazione, nella sua derivazione più temibile:

LA DISINFORMAZIONE.
Le sue sono dieci regole … le regole della disinformazione. I dieci comandamenti del potere mediatico.
La prima norma è la “strategia della distrazione”. Dice Chomsky: «Consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. E’ anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, dell’economia, della psicologia».

Seconda norma è quella che potremmo definire “falso problema/risposta demagogica”: «Si crea un problema, una ‘situazione’ prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desidera far accettare. Ad esempio si possono lasciar dilagar la violenza urbana e i disordini sociali, oppure creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici».

Terza norma è la gradualizzazione delle soluzioni politiche, e quindi «Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, col contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta».

Quarta norma è quella dello spostamento nel tempo: «Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento».

Quinta norma è il comunicare ai cittadini come fossero bambini. «La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, questa tenderà, con una certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico: come quella di una persona di 12 anni o meno».

La sesta norma è quella che definirei “patemica”. «Sfruttare l’emozione – afferma Chomsky – è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette di aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti».

La settima, è la progettazione e gestione di un’ignoranza diffusa. «La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori».

E questa norma è legata a doppia mandata con l’ottava. Quella che prevede che il pubblico mediatico si convinca che «è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti. E che questi sono valori positivi e condivisibili».

La norma numero nove è quella del “senso di colpa”, e quindi: «Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è ribaltamento né rivoluzione, non c’è nessuna possibilità di cambiamento in senso democratico»

L’ultima norma, la numero dieci, è quella che possiamo definire del “doppio binario della conoscenza scientifica”. Per Chomsky il vero potere consiste nel conoscere compiutamente i predicati psicobiologici del pubblico (mediante gli assoluti progressi della biologia, della neurobiologia e della psicologia applicata), e poter confidare sul fatto che i cittadini (scientificamente analfabeti) non siano in grado di conoscere sé stessi.

Quante di queste dieci norme di questo teorema … sono riscontrabili nella gestione politica della comunicazione italiana?

mercoledì 29 settembre 2010

IL COUNSELOR

Il counselor è una professione di aiuto tipica di una società molto mobile e competitiva. Essa interviene a sciogliere, in un breve arco di tempo e in senso positivo, situazioni di disagio, non caratterizzate da patologie né psicologiche ne fisiologiche. Il counselor deve avere delle conoscenze di psicologia ma non è uno psicologo e non fa psicoterapia perché non è di sua competenza. È a conoscenza delle patologie psicologiche, perché qualora si presenti un cliente con delle difficoltà manifeste, ha l’obbligo di indirizzarlo allo specialista di competenza. Ma prima ancora dell’applicazione di tecniche o strategie è lo sviluppo delle proprie qualità personali che è fondamentale per il counselor. Si potrà diventare catalizzatori di un processo di crescita nel proprio interlocutore solo attraverso un incontro autentico sul piano umano.
E’ un atteggiamento professionale peculiare quello con cui il counselor si rivolge al cliente, a metà strada tra il rituale distacco del medico e il caldo coinvolgimento dell’amico del cuore. Che cosa caratterizza questa relazione, la cui specificità ha portato alla decisione di non italianizzare il nome della professione ma di mantenerne la dizione originaria – counseling – dal significato insostituibile? Proprio il fatto che, prima ancora di essere un rapporto professionale, il counseling è un rapporto umano.
E’ un momento privilegiato di interazione in cui il counselor crea le condizioni per una comunicazione autentica, in cui il cliente si senta accolto, ascoltato, accettato, compreso. In una società come quella sopra descritta diventa sempre più difficile per le persone crearsi situazioni in cui potersi aprire con un interlocutore senza doverne temere il giudizio, la considerazione superficiale, il disinteresse o addirittura il rifiuto.
Il counseling risponde a questa profonda necessità di incontro autentico e di condivisione di riflessioni inascoltate che spesso, una volta accolte da un orecchio attento, da sole si incanalano verso una possibile risoluzione adatta alla persona. Anche in questo il counseling si distingue da altre relazioni professionali, nel suo accompagnare dolcemente l’interlocutore verso l’esplorazione della sua situazione sostenuto dal sottinteso che sarà lui stesso a poter trovare la soluzione di volta in volta necessaria, che è lui – il cliente - l’ “esperto”, l’unico possibile esperto nell’arte di comprendere e dirigere la sua stessa vita.
Al di là della metodologia e delle tecniche usate dai diversi approcci nel counseling, questa priorità dell’incontro umano accomuna tutte le scuole, è l’essenza stessa della relazione di counseling. È qualcosa che non si impara sui libri ma che è la vita stessa a insegnare, è un atteggiamento interiore di profondo rispetto e accettazione di sé e dell’altro, che può solo nascere da un lavoro di crescita personale, da un aver sviluppato in prima persona quella che Adrian Van Kaam definisce “ impegno esistenziale” : la consapevolezza della propria fondamentale libertà di fronte alle sollecitazioni della vita, della potenziale creatività di dare direzione e qualità alle relazioni e della responsabilità conseguente nei confronti della propria esistenza.
La formazione al counseling, ai futuri professionisti in questa nuova professione destinata a diffondersi sempre di più, passa necessariamente per un percorso di scoperta, riconoscimento e consolidamento delle qualità umane presenti in ogni persona che abbia affrontato in prima persona un percorso di conoscenza, accettazione e integrazione personale.
Un percorso che sviluppa , a sua volta, la sicurezza interiore necessaria per accompagnare un altro essere umano alla ricerca di sé, con la stessa tranquilla fiducia con cui una guida di montagna accompagna un escursionista sul suo percorso: fornendo stimoli ma sapendo attendere che l’altro sia pronto a coglierli, incoraggiando senza forzare, mettendo in guardia senza invadere, guidando, passo per passo, verso una crescente autonomia e una maggior fiducia in se stessi.
Il counseling è basato su una profonda fiducia nell’essere umano, nella sua capacità di autodeterminazione e nei suoi valori più alti potenzialmente presenti in ognuno. È questa fiducia che deve impregnare l’atteggiamento di ogni counselor, deve essere il messaggio subliminale che viene passato nella relazione per sostenere la persona nella sua ricerca di sé, con la tranquilla certezza che non spetterà mai al counselor dirle dove deve andare e cosa deve fare- guai - ma chi conduce l’incontro dovrà “ soltanto” essere lì per l’altro, esserci davvero, con tutto se stesso, con tutta l’attenzione, l’empatia, la partecipazione di cui è capace chi ha già fatto quella strada in prima persona e decide di intraprendere la professione di “facilitatore” del processo di crescita, di catalizzatore di un ampliamento di punti di vista e di orizzonti.
Questa presenza, questa capacità di mettere a disposizione la propria umanità, questa autentica premura dimostrata nei confronti del proprio interlocutore, prima ancora di qualsiasi tecnica o strategia pianificata a tavolino, sono gli elementi fondanti, peculiari e vincenti di questa nuova professione di aiuto, del counseling.




Il Counselor può operare come:

• libero professionista con consulenze individuali e di gruppo per quanto riguarda problematiche esistenziali, relazionali, di lavoro.

• Mediatore nell’ambito delle aziende e delle comunità

• Mediatore nell’ambito sociosanitario e scolastico

• Accompagnatore dei quadri aziendali nei processi di trasformazione aziendale e sociale

• Accompagnatore ( coach ) delle problematiche di riciclaggio professionale.



Vi sono molte metodologie di Counseling

Cognitivo-comportamentale
Gestaltico
Linguistico-transazionale
Psicoanalitico
Esistenziale
Di gruppo
Sistemico

Ognuno fondato su un diverso modello interpretativo.




Il counseling ad approccio integrato
a partire dalla metodologia Rogersiana accoglie i contributi più recenti del Cognitivismo Costruttivista e della prospettiva Sistemico-Relazionale.


Carl Rogers

Carl Rogers è famoso per il suo approccio pragmatico e per aver elaborato una forma di psicoterapia non direttiva: la terapia centrata sul cliente o counseling non direttivo.

Nasce nel gennaio del 1902 in Illonois, in un sobborgo di Chicago in una famiglia molto unita, con principi religiosi e morali piuttosto rigidi. All’età di dodici anni, con la famiglia si trasferisce in un podere ove trascorrerà un’adolescenza solitaria, piuttosto isolato. Interessandosi di agricoltura scientifica, comincia gli studi di agraria, segue alcune conferenze di carattere religioso e successivamente si orienta verso il ministero religioso. Grazie ad alcuni viaggi in Cina comincia a dubitare di alcuni fondamenti religiosi di base, prendendo distanza sia dal consenso familiare che dalle vecchie credenze. Dopo la laurea sposa – contro il volere della famiglia – Helen Elliot e con lei si trasferiche a New York dove frequenta una istituzione liberale, allontanandosi progressivamente dalla prospettiva di un lavoro religioso per diventare psicologo.
Partecipa a seminari e conferenze di natura psichiatrica e psicologica e durante la sua frequenza al Teacher College, gli viene offerto un incarico all’Istitute for Child Guidance, dove trascorre un anno in cui, lavorando, si trova a confrontarsi con altri professionisti. Successivamente viene assunto al “Child Study Departement” della società di Rochester per collaborare attivamente a progetti volti alla prevenzione della crudeltà sui bambini. Inizia quindi il lavoro clinico centrato sulla diagnosi e la rieducazione dei soggetti con comportamenti delinquenziali e con ritardo mentale, su incarico dei Tribunali.
In questo periodo approfondisce la riflessione sulla relazione terapeutica che diverrà materiale didattico nell’ambito dei suoi corsi universitari: all’università dell’Ohio, come professore di psicologia, alla Chicago University e infine alla University del Wisconsin.
Nel 1951 pubblica il suo lavoro principale – La terapia centrata sul cliente – in cui formula la sua teoria di base. Nel 1964 abbandona l’insegnamento per dedicarsi alla sperimentazione sui gruppi al Centro del Comportamento de La Jolla. Lavora ininterrottamente fino agli ultimi anni della sua vita, viaggianto per utto il mondo e dedicandosi alle sue teorie sul conflitto sociale. Muore all’età di 85 anni.


Rogers, insieme a Rollo May e Maslow, è tra gli psicologi che maggiormente contribuiscono a fondare e diffondere la Psicologia Umanistica.
Il pensiero fenomenologico esistenziale, nato in Europa, viene recepito negli Stati Uniti dalla corrente della Psicologia Umanistica detta Terzaforza rispetto alla Psicoanalisi e al Behaviorismo ( ritenute la prima e la seconda forza delle Psicologia).
Tutta la teoria e la pratica della psicologia umanistica si pone come reazione compensatoria al riduttivismo comportamentista e ancor più esprime un netto rifiuto di tutto ciò che richiami la neutralità e il distacco del terapeuta.
Tutto il “movimento encounter “ pur teorizzando stili di conduzione diversi, prevede il recupero dell’umanità, della spontaneità, dell’espressione – qui e ora - dei sentimenti, offrendo nuovi valori. Si avvale delle sperimentazione contemporanee applicate ai gruppi, comprese quelle di Moreno, Perls.

Il pensiero.

La teoria di Rogers è basata sulla sua vasta esperienza clinica.

Rogers prende presto distanza dal pensiero freudiano: considera la salute mentale come la progressione normale della vita e la malattia mentale (e altri problemi umani) come distorsioni della “ tendenza attualizzante”.

Si tratta di una forza di vita che può essere definita come la tendenza fondamentale dell’organismo, nella sua totalità, ad attualizzare le proprie potenzialità; essa opera sia sul piano dell’organismo, che su quello filogenetico e ha bisogno, per poter funzionare, di un contesto di relazioni umane positive, favorevoli alla conservazione e rivalutazione dell’Io.

Se la nozione dell’Io è realistica, cioè se vi è corrispondenza tra gli attributi che il soggetto crede di possedere e quelli che effettivamente possiede, egli sarà congruente e la persona potrà svilupparsi in modo unitario, autonomo e soddisfacente.

In genere il cliente si trova in una si-tuazione di incongruenza tra l’esperienza reale dell’organismo e l’immagine di sé che egli ha quando si rappresenta l’esperienza.

Sul piano psicoterapeutico si impone un metodo non direttivo, che rispetti le tendenze vitali e autoregolantisi dell’individuo; la terapia si limita a creare le condizioni necessarie e fondamentali a favorire la crescita.

Secondo il metodo non direttivo di Rogers il terapeuta, nel promuovere i processi di modificazione della personalità del paziente, si affida non a tecniche o all’interpretazione , ma all’empatia, concetto cardine dell’impianto rogersiano.

L’empatia (da empateia, passione) viene intesa come la comprensione dell’altro che si realizza immergendosi nella sua soggettività, senza sconfinare nella identificazione. Il terapeuta è capace di considerazione o accettazione positiva incondizionata verso il cliente, nella misura in cui sente di accettare ogni aspetto dell’altro, ogni sentimento – espresso o non espresso – sia quelli negativi, anormali che quelli buoni.

Se questa assenza di giudizio è presente, il terapeuta potrà avere una comprensione empatica di quanto il paziente sente a livello cosciente.

Rogers sottolinea il fatto che il terapeuta può sentire il mondo dell’altro come se fosse proprio, senza perdere di vista mai tale qualità del “ come se”.

Sentire l’ira, la paura, l’odio, il turbamento dell’altro senza aggiunte proiettive. Non direttività significa rispetto della libertà e dell’autodeterminazione del cliente e contemporaneamente autoeducazione continua del terapeuta, che è in continua crescita, seppure dolorosa e arricchente.

La terapia è intesa come un incontro tra due esseri umani in crescita; la lezione di umiltà che arriva da Rogers è valida perché ci ricorda la necessità di calarsi ogni volta nella relazione sapendo di uscirne trasformati, avendo chiara la relatività delle nostre convinzioni.

I suoi gruppi di incontro (T groups), esperienze intensive, partivano dalla chiara intuizione, ancora attuale, che la gente sia consapevole della propria solitudine interiore, dovuta alle maschere indossate per sopravvivere in una realtà complessa.







Il modello cognitivo

In social learnig theory (1977), Bandura critica la logica lineare del comportamentismo classico che considera l’ambiente come l’unica determinante dello sviluppo della natura umana.
Gli uomini non sono solamente organismi passivi plasmati da ciò che li circonda, ma possono pure influenzare il loro ambiente. Le persone non sono il prodotto della loro condizione socioculturale, ma vanno considerati dei soggetti attivi che producono il loro ambiente. Partendo da queste premesse A.T.Beck sviluppa la terapia cognitiva.
In accordo con i principi dell’apprendimento sociale di Bandura, Beck collega l’organizzazione di processi cognitivi ai fattori biologici e sociali. L’essere umano è visto come una creatura cognitiva complessa, la cui personalità è modellata dall’apprendimento di valori e percezioni che strutturano la visione unica di sé, degli altri e del mondo. I valori e le percezioni che costituiscono la personalità sono organizzati in schemi cognitivi, che sovrintendono ai processi di codificazione, categorizzazione e valutazione delle regole di vita.
In altre parole, il comportamento dipende da modo in cui gli individui percepiscono e interpretano gli eventi. Secondo il punto di vista cognitivo le persone non reagiscono passivamente all’ambiente, ma sono agenti attivi di cambiamento. Le cognizioni, i comportamenti e, in accordo con il costruttivismo , le emozioni guidano i comportamenti di adattamento individuale all’ambiente.

Il modello costruttivista

Secondo la teoria dei costrutti personali, gli individui costruiscono e interpretano attivamente la realtà. Essa di basa su un postulato fondamentale: i processi di pensiero che caratterizzano l’individuo vengono espressi nel modo in cui anticipa gli eventi ( G.Kelly, 1955).
I costrutti sono modelli personali di costruzione della realtà: le persone anticipano gli eventi attraverso il riconoscimento di regolarità di temi ricorrenti di episodi vissuti in passato, che si presentano nel pensiero e nel comportamento presente. Le modalità di anticipazione vengono definite “ costrutti personali”, unità minime di conoscenza, risultato dei processi individuali di differenziazione e di organizzazione della realtà.
Non esiste nessun sistema universale di costrutti, ma ogni costrutto riflette la personalità e i circuito di relazioni di un individuo. Due persone che vivono la stessa situazione raramente hanno la stessa esperienza di essa. Anche se gli individui costruiscono e comprendono gli eventi in modo personale, l’appartenenza alla stessa cultura permette di condividere sistemi di costrutti simili, dovuta a processi psicologici simili.
Il sistema di costrutti personale è organizzato in una rete gerarchica di significati, ordinati secondo la loro efficacia nell’anticipare le situazioni, anche se la previsione riguarda solamente una serie finita, e quindi limitata, di eventi.
Il sistema di costrutti personale varia con variare degli eventi, e la possibilità di modificarlo è determinata dal grado di permeabilità del sistema nel consentire l’immissione di nuovi elementi non ancora elaborati come costrutti, che devono essere comunque coerenti con la struttura di significati già esistente.
I problemi delle persone nascono dal loro fallimento nella costruzione di un sistema di costrutti appropriato. Per quanto riguarda la partecipazione alla rete di relazioni interpersonali, l’individuo acquisisce un suo ruolo quando è in grado di anticipare il processo di costruzione dell’altro. Quando la persona prevede il modo in cui l’altro costruisce la realtà, è pure in grado di predire i suoi comportamenti successivi, e quindi di stabilire una relazione specifica.
Il modello teorico-pratico costruttivista considera gli esseri umani come creatori e costruttori delle proprie realtà personali e sociali. L’attenzione è rivolta agli aspetti attivi e creativi dei processi cognitivi umani, nel tentativo di mantenere ordine e coerenza e raggiungere un buon adattamento col l’ambiente.
La realtà è considerata dinamica e complessa e richiede un adattamento continuo ai cambiamenti, sia modificando la propria organizzazione cognitiva, attraverso l’adozione di nuove regole per i pensieri, i sentimenti e i comportamenti, sia acquisendo abilità che permettono di risolvere i problemi in modo più efficace.
I disturbi emotivi e comportamentali non vengono considerati invalidanti, ma sono momenti che accompagnano lo sviluppo e che precedono o seguono la trasformazione e la riorganizzazione cognitiva. La psicopatologia corrisponde ad una limitata capacità di adattamento, inadeguata ad affrontare le richieste ambientali, proprie della fase evolutiva in cui si trova l’individuo. Inoltre, la patologia può derivare anche da un cattivo processo di attaccamento e separazione (Bowlby, 1983). I disordini conseguenti portano alla formazione dei convinzioni e regole irrazionali, causa dei processi di pensiero disfunzionali.


Il modello sistemico-relazionale


Alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, nell’ambito della fisica, della chimica, della matematica, si diffusero alcune teorie che mettevano in discussione la logica lineare e meccanicista del modello scientifico di derivazione cartesiana e newtoniana. La teoria generale dei sistemi, la cibernetica, le teorie sull’informazione e sulla comunicazione trovarono la loro applicazione in diversi campi della scienza, compresi quelli che studiavano l’individuo e i suoi rapporti con l’ambiente interpersonale.
L’unità di studio di queste ricerche non era più l’individuo isolato, ma l’individuo più il suo ambiente familiare nella loro interazione. All’interno di questa interazione, non avveniva uno scambio di energia, ma un passaggio di informazioni, che seguivano le regole sistemiche della retroazione e della circolarità.
Come per gli altri sistemi, anche le interazioni e gli scambi comunicativi tra i diversi membri che compongono la famiglia, e tra questa e l’esterno, sono governate da regole:

• totalità: il sistema non è costituito dalla somma degli elementi che lo compongono, ma dalla loro interazione reciproca; qualsiasi cambiamento in una parte del sistema produce un cambiamento nelle altre parti e nel sistema più ampio;
• omeostasi: è uno stato di equilibrio dinamico, a cui tende costantemente il sistema sottoposto a stress interni ed esterni;
• feedback o retroazione: si riferisce ai processi interattivi tra le parti del sistema, allo scambio di informazioni dentro e tra gli elementi, e alle interazioni tra il sistema e l’esterno. La retroazione è un meccanismo che regola il funzionamento del sistema, mantenendo il suo equilibrio interno attraverso il controllo sulle informazioni ricevute, interpretate e trasmesse, e modificando il proprio comportamento in base alle risposte ricevute dall’esterno. La retroazione può essere positiva o negativa. La retroazione positiva è un’informazione che aumenta la deviazione dalle regole del sistema e favorisce il cambiamento; la retroazione negativa è, invece, un’informazione che riduce la deviazione dalle norme e dai valori e conserva la stabilità del sistema;
• feedforward: regola la selezione di feedback utili al sistema e stabilisce limiti entro cui dare una risposta appropriata;
• equifinalità: eventi differenti possono condurre allo stesso risultato, indipendentemente dalle condizioni iniziali, ma anche risultati diversi possono essere prodotti da cause uguali;
• causalità circolare; concatenazione di eventi causali successivi nella loro interazione continua.

I sistemi familiari possono essere descritti anche da un punto di vista strutturale. Ogni sistema costituisce una struttura unica scomponibile in sottosistemi ( coniugale, genitoriale, figli, fratelli), ed ognuno costituisce a sua volta altri sottosistemi. Ogni individuo è parte di diversi sottosistemi, a seconda dei ruoli e delle funzioni richieste dalla famiglia. Ogni sottosistema ha i propri confini, che definiscono le funzioni dei ruoli, norme e valori di ogni membro della famiglia e dei sistema-famiglia rispetto al suo ambiente. Il grado dei permeabilità dei confini determinerà il tipo di comunicazione all’interno della famiglia e tra il sistema e l’esterno, e dunque la maggiore o minore possibilità per il sistema familiare di cambiare. Ricapitolando, la struttura di una famiglia è formata

• dalle relazioni dei vari sottosistemi tra loro e con la totalità del sistema
• dalle regole e dalle regolazioni che controllano e mantengono l’omeostasi del sistema familiare, e che vengono espresse attraverso le modalità comunicative proprie di ogni famiglia.

Un altro principio molto importante per la descrizione di una famiglia è quello di ciclo vitale. Il ciclo di vita della famiglia è costituito da diverse fasi evolutive. Molto schematicamente, la famiglia inizia con il primo incontro tra i due partners, che può portare al fidanzamento. Quando poi la coppia decide di stabilizzare questa unione, la fase successiva sarà la convivenza oppure, come più spesso accade, il matrimonio e il passaggio dei due membri della coppia a marito e moglie. Tra i progetti dei coniugi ci può essere anche quello di fare dei figli. Con la nascita dei figli i partner non sono più solamente coniugi ma pure genitori.
La fase successiva consiste nella scolarizzazione, un momento estremamente importante nella vita della famiglia perché costituisce la prima modificazione nel rapporto di dipendenza tra il bambino e i suoi genitori. Con la crescita. Il figlio definisce sempre meglio una sua identità che lo caratterizza come una persona capace di gestirsi autonomamente. La richiesta di una progressiva autonomia e indipendenza dai genitori caratterizza la fase di svincolo adolescenziale. Quando il ciclo vitale procede regolarmente, anche i figli saranno liberi di costruirsi una propria vita, di sposarsi, di fare dei figli, così da rendere nonni i loro genitori. E così via.
La coppia, il matrimonio, la nascita di un figlio, il distacco dei figli dai genitori, il ritorno da genitori a coniugi, sono fasi che impongono inevitabilmente trasformazioni nella struttura e nelle comunicazioni della famiglia. Il susseguirsi delle diverse fasi evolutive è contrassegnato da crisi, che non vanno intese in senso patologico, ma secondo il significato etimologico della parola, che proviene dal greco ”crino”, scelta. Il passaggio da una fase all’altra impone alla famiglia scelte differenti, in cui vive dei momenti critici, che possono creare un arresto nel ciclo di vita.
La capacità di adattare la struttura e gli stili comunicativi alle differenti richieste, proprie di ogni fase permetterà alla famiglia di evitare le crisi croniche e la stagnazione.














La conduzione del colloquio



Il counseling è un colloquio a motivazione intrinseca ( Trentini, 1980), la conditio sine qua non è che sia richiesto dal cliente e non subito per imposizione. Questo facilita il versante comunicativo che è la sostanza prima, la “ materia” del colloquio.
La libera percezione dei fatti psicologici è però ostacolata dalla personale implicazione affettiva dell’operatore, dal fatto che sia colpito affettivamente da ciò che l’altro dice o fa, che sia coinvolto emotivamente.
Nel colloquio agiscono inoltre con forza variabili di interazione: in particolare è importante che il counselor sia consapevole di quanto può influire sul cliente anche senza un intervento apparentemente attivo, anche quando sembra limitarsi ad un ascolto e a una registrazione neutrale. Per questo è richiesto un lavoro esperienziale di approfondimento dell’operatore sul proprio Sé, per conoscere le sue tendenze, la sua “ equazione personale”. La personalità del counselor e non soltanto quella dell’esaminato risulterà sempre coinvolta ed in azione nel colloquio.
Nella polarizzazione relazionale che si determina nel campo creato dai due individui in interazione sono possibili molti orientamenti, ma soltanto uno è in grado di svolgere un’azione di facilitazione sulla comunicazione dell’interlocutore e consiste per il counselor nell’ascolto attivo dell’altro e nella modalità della comprensione-facilitazione, che di necessità implica ascolto e accettazione di sé e dei propri vissuti.
Il colloquio è una comunicazione che si basa su uno sforzo di comprensione del counselor nei confronti del cliente che non è reciproco, dal momento che il cliente è centrato al contrario su uno sforzo di comprensione e di chiarificazione di se stesso.
Nel primo colloquio è opportuno specificare che la relazione che si intende istituire, a patto che il cliente sia d’accordo, è un colloquio di comprensione/chiarificazione basato sulla tecnica della riformulazione.
La riformulazione consiste nel provare a ridire con altre parole quello che il cliente ha appena espresso, perseguendo un intento riassuntivo o chiarificatore ed ottenendo l’approvazione del cliente. Sarà il cliente a parlare maggiormente e il counselor interverrà solo di tanto in tanto con riformulazioni. il counselor deve chiedere al cliente di correggerlo e di illuminarlo tutte le volte che non avendo ben compreso ciò che il cliente ha detto, si potrebbe trovare a riformulare erroneamente. Sottolineare la necessità di questa fiducia reciproca è importante perché significa chiedere ad entrambi i soggetti di focalizzare l’attenzione su una “ regola del gioco” basilare. Il realtà questa fiducia si conquisterà poi definitivamente sul campo, man mano che la relazione di aiuto procede, ma chiarire questo aspetto significa intraprendere il cammino con il piede giusto.
Nella fase iniziale del primo incontro spesso giocano un ruolo di un certo peso alcuni imbarazzi , paure o fantasmi del cliente. Ciò che è ignoto di per sé può essere assimilato a ciò che è oscuro e l’inizio di un colloquio è vissuto dal cliente spesso come un’incognita. Aprire me stesso a l’altro significa permettergli di conoscermi, abbassare le mie difese e dunque espormi, diventare vulnerabile. Questo procedimento di apertura può essere vissuto dal soggetto con una componente ansiogena. La risposta migliore che può fornire il counselor è la sua profonda accettazione incondizionata, e la sua comprensione empatica.

Nel vivo del colloquio

Essere centrati sulla persona in questa fase dell’incontro significa prima di tutto focalizzare l’attenzione sul “ vissuto” del cliente nell’hic et nunc e non sui fatti. Significa interessarsi e polarizzarsi sulla persona in toto, su ciò che il cliente sta comunicando anche con il linguaggio non verbale, chiedendosi quali emozioni sta sperimentando, non limitarsi al significato razionale delle sue parole o semplicemente al racconto degli avvenimenti e delle situazioni che ci sta fornendo e, meno che mai in questa fase, ai legami di causa-effetto.
L’interesse per il problema presentato non deve mai sopravanzare l’interesse per la persona che di quel problema si fa portatrice. Non deve esistere il problema nella valutazione oggettiva che se ne può fornire, quanto piuttosto interesse e comprensione per come la persona lo sta vivendo.
In seconda istanza, man mano che l’intervento di counseling procede nel tempo, essere centrati sulla persona comporterà sempre più attenzione al problema per come viene riconosciuto dal cliente, tentativi di chiarimento e di individuazione dell’obiettivo concreto da perseguire e facilitazione di un processo decisionale essenzialmente autogestito.
In pratica entrare nel vivo del colloquio significa non solo ascoltare le parole pronunciate dal cliente, ma anche quelle che non può o non riesce a pronunciare. È ascolto attivo, da condursi con attenzione e senza distrazioni, cogliendo contemporaneamente alle parole tutti i segnali non verbali, ascoltando l’altro non soltanto attraverso il senso dell’udito ma anche attraverso il senso della vista, stimolando tutto il nostro corpo, ogni centimetro di superficie della nostra epidermide, a diventare ricettivo.
L’abitudine a cogliere ogni minimo segnale e ad amplificarlo perché risulti decodificabile finisce per essere – volendo ricorrere ad una metafora – la vera mappa, al di là delle parole, mentre navighiamo nel mare della comunicazione, per giungere al tesoro comunicativo. In questa fase del colloquio bisogna facilitare la comunicazione, essere congruenti, essere empatici, essere pazienti, fare riformulazioni attente e pertinenti, mantenere un atteggiamento di accettazione, effettuare un attento lavoro di monitoraggio di se stessi, osservarsi nella relazione anche attraverso le reazioni del cliente, verificare sempre l’efficacia della trasmissione empatica, rispettare il soggetto nel suo sistema valoriale e nel suo vissuto oltre che nelle sue scelte.

Ritiro e chiusura del colloquio

È necessario che il cliente sia a conoscenza della durata dell’incontro (cinquanta minuti al massimo). Chiudere un incontro non è sempre facile, in particolar modo se la relazione è ben avviata. Bisogna cercare di cogliere il momento giusto, per esempio una riformulazione ben riuscita attraverso la quale il cliente si sente completamente compreso e da questa comprensione trae forza, oppure una riformulazione di un atteggiamento non verbale del cliente che ha denotato una sua stanchezza, oppure una riformulazione particolare con richiesta al cliente di rimanere in contatto durante la settimana, se lo desidera, fino all’incontro successivo.
È necessario che il counselor sia sempre congruente, nel caso, per esempio, in cui il counselor sia molto stanco e la fine del colloquio rappresenta un motivo di esultanza, è basilare che comunichi la sua stanchezza al cliente ed il livello di affaticamento da cui si sente gravato e che cerchi sempre di rimanere in contatto autentico e profondo, scusandosi sinceramente per questa sua situazione fisica. In ogni modo, prima di salutare il cliente, è indispensabile che abbia ottenuto anche il suo ritiro dal colloquio.

Rischi nella conduzione del colloquio

Non aver compreso pienamente il significato del termine congruenza, non conoscere le leggi della dinamica interpersonale, partire dall’assunto, pur valido, dell’importanza di essere se stessi nella relazione, potrebbe generare confusione con il ricorso allo spontaneismo.
La conduzione del colloquio è un procedimento ben preciso, che necessita dell’acquisizione di competenze tecniche e di un’opportuna formazione. È indubbio che nell’impostazione rogersiana si parta dal saper essere nella persona, dalle sue qualità personali di genuinità, coerenza, sensibilità, disponibilità, creatività, che in ogni caso non devono mai essere date per scontate, ma verificate continuamente e sottoposte ad un meticoloso lavoro di “ labor limae”.
Il counseling, proprio per le sue caratteristiche d’intervento, presuppone quindi una conoscenza di se stessi, un lavoro conoscitivo e di approfondimento che ciascun counselor deve essere disposto a fare in prima persona sui propri tratti di personalità, per non cadere tout court in facili meccanismi proiettivi.
La padronanza della metodologia d’intervento non può essere disgiunta comunque, proprio nella stessa visione di Rogers, dal saper fare, inteso come possesso di competenze teoriche e pratiche, ciascuna delle quali oggetto di formazione precisa e puntuale. Per acquisire questa metodologia è necessario un training di formazione ed un’accurata preparazione. Anche in seguito, quando la formazione è terminata, per poter realizzare o mantenere un counseling qualitativamente valido ed efficace, è indispensabile sottoporsi periodicamente alla supervisione pratica, sia individuale che di gruppo.

Codice di etica professionale

I termini del contratto di counseling devono esser chiariti all’utente prima che le consulenze inizino. Nel caso dei successive revisioni dei termini, bisogna accordarsi in anticipo su ogni cambiamento.
Il counseling è un’attività in cui i valori di base sono l’onestà, l’imparzialità e il rispetto. Durante il counseling vanno presi tutti i provvedimenti necessari alla tutela dell’utente. Il Counselor deve quindi attenersi ad un codice di etica e deontologia professionale disciplinata dalla S.I.co. ( società italiana di counseling).
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GIOVANNA DI MARTINO





BIBLIOGRAFIA:

Ecopsicologia di Marcella Danon Editore Urra

Manuale di Psicoterapia di E.Giusti, C. Montanari, G.Montanarella Editore Francoangeli
integrata

Counseling di Annamaria Di Fabio Editore Giunti

rivista
Il counselor Marcella Danon

lunedì 27 settembre 2010

le SETTE regole d'oro per saper ascoltare

1 NON AVERE FRETTA DI ARRIVARE A DELLE CONCLUSIONI. LE CONCLUSIONI SONO LA PARTE PIU’ EFFIMERA DELLA RICERCA.
2 QUEL CHE VEDI DIPENDE DAL TUO PUNTO DI VISTA. PER RIUSCIRE A VEDERE IL TUO PUNTO DI VISTA, DEVI CAMBIARE PUNTO DI VISTA.
3 SE VUOI COMPRENDERE QUEL CHE UN ALTRO STA DICENDO DEVI ASSUMERE CHE HA RAGIONE E CHIEDERGLI DI AIUTARTI A VEDERE LE COSE E GLI EVENTI DALLA SUA PROSPETIVA.
4 LE EMOZIONI SONO DEGLI STRUMENTI CONOSCITIVI FONDAMENTALI, SE SAI COMPRENDERE IL LORO LINGUAGGIO. NON TI INFORMANO SU COSA VEDI, MA SU COME GUARDI. IL LORO CODICE E’ RELAZIONALE E ANALOGICO.
5 UN BUON ASCOLTATORE E’ UN ESPLORATORE DI MONDI POSSIBILI. I SEGNALI PIU’ IMPORTANTI PER LUI SONO QUELLI CHE SI PRESENTANO ALLA COSCIENZA COME AL TEMPO STESSO TRASCURABILI E FASTIDIOSI, MARGINALI E IRRITANTI, PERCHE’ INCONGRUENTI CON LE PROPRIE CERTEZZE.
6 UN BUON ASCOLTATORE ACCOGLIE VOLENTIERI I PARADOSSI DEL PENSIERO E DELLA COMUNICAZIONE. AFFRONTA I DISSENSI COME OCCASIONI PER ESERCITARSI IN UN CAMPO CHE LO APPASSIONA: LA GESTIONE CREATIVA DEI CONFLITTI.
7 PER DIVENIRE ESPERTO NELL’ARTE DI ASCOLTARE DEVI ADOTTARE UNA METODOLOGIA UMORISTICA. MA QUANDO HAI IMPARATO AD ASCOLTARE, L’UMORISMO VIENE DA SE’.