mi piace leggere, viaggiare e il mare in tutte le stagioni. credo fermamente in tutte le ragioni dell'essere, nel suo manifestarsi e nella profonda bontà dell'animo umano.

mercoledì 17 aprile 2019

“GRAZIE SIGNORE PER TUTTI I GIORNI CHE HO VISSUTO. GUIDA I MIEI PASSI NELLA LUCE”



Queste sono state le parole di mia sorella Anna poco prima di morire.

Vorrei qui raccontarvi il suo ultimo anno di malattia. Le sue considerazioni mano a mano che si avvicinava l’ora. Le meditazioni fatte assieme e le lunghe conversazioni sulla morte.

Aveva scoperto di avere un tumore al fegato per caso e subito si è operata. L’anno successivo una secondo intervento non lasciava presagire nulla di buono, ma trascorsi 4 anni pensava di avercela fatta e quando stava per cominciare a credere di aver vinto il tumore, ecco la nuova diagnosi: metastasi su tutto il corpo: le restavano al massimo tre mesi di vita. Almeno così era stata la sentenza dei medici.

A quei tre mesi se ne sono aggiunte altri tre e poi altri tre….e poi altri tre.
“Non voglio morire…” diceva…” e siccome non voglio...non morirò”.
Avevamo consultato molti medici sia a Roma che a Milano dove era stata operata la prima volta.   “niente più chemioterapia” asseriva decisa. Non si sarebbe fatta avvelenare ulteriormente dalle industrie farmaceutiche. Per me è stato come rivedere tutto di nuovo. 23 anni prima, mio marito, morto di linfoma. Poi mio padre nel 2011 (vedi "lettera a mio padre" del 2011), tumore ai polmoni. Infine lei, Anna, tumore al fegato. La sorellona che mi aveva fatto da madre perché la più grande dei sette figli e siccome femmina, doveva occuparsi dei fratelli più piccoli.
Crescere in una famiglia numerosa può essere una ricchezza o una guerra continua. Dover condividere nel quotidiano una casa con sole tre stanze in tutto e il bagno fuori, non era facile. Per questo, molti di noi sono stati messi in collegio. Mia sorella maggiore no. Lei serviva in casa, per fare le pulizie e aiutare con i fratelli piccoli. Non so se sia stato più difficile per noi che abbiamo vissuto in collegio, o per lei lavorare fuori e dentro casa per aiutare la famiglia numerosa e povera.  Questi squarci di vita passata sono stati tutti rielaborati da lei nell’ultimo anno della sua malattia Le hanno tirato fuori una rabbia cieca, che non ha fatto altro che peggiorare il suo dolore totale. Almeno ne parlavamo. Parlavamo anche di come quella mamma tanto amata e riverita negli anni passati, si stesse trasformando ai suoi occhi. Di come ora la vedeva diversamente. non la sentiva vicina e ne soffriva immensamente. Io l’ascoltavo. C’era sempre stata una sorta di complicità con mia sorella. Lei,  mia confidente, amica e mamma supplente.
La compagna dei pigiama party con le tartine alle olive a mezzanotte. Delle gite fuori porta con le canzoni di Battisti.
I nostri argomenti spaziavano dal perché si fanno tanti errori nella vita, al mistero della morte e del cosa c’è dopo e della fugacità della vita.
Non ci siamo mai perse di vista. Neanche quando sono andata a lavorare prima (nel lontano 1991) a Vercelli e poi a Milano. Alle volte veniva lei da me, alle volte scendevamo noi (io e mia figlia). Andavamo per boschi e per fiumi. Le piaceva immensamente la natura e gli animali. Spesso visitavamo i cimiteri, per ricordarci che tutto quello che “c’e fuori” prima o poi sarebbe finito. Andavamo a trovare i nostri morti ma anche quelli degli altri. E davanti alle tombe ci facevamo un sacco di domande. Ma loro ci vedono? Ci sentono? Ci staranno ancora accanto? E parlavamo…. Parlavamo…
Il mistero della vita e della morte era la nostra conversazione preferita.

Sempre allegra e sempre sorridente fino a che le delusioni della vita e infine l’infausta diagnosi non l’hanno completamente trasformata.
Era arrabbiata. Tanto arrabbiata. Per tutte le cose che per paura non aveva fatto e di cui si pentiva. "se potessi tornare indietro", diceva. Con la vita, perché le sfuggiva di mano lentamente senza che potesse afferrarne il senso.
Tutto era diventato troppo pesante. L’ombra della morte era sempre con noi. Un conto era parlarne, un conto era sapere che era vicina.
Quel viaggio di ritorno da Milano a Roma, con la diagnosi della recidiva, lo ricordo come fosse ora. Non sembrava vero. Sembrava di vivere in un incubo. “Non voglio morire” mi diceva a capo chino sommessamente ”Non è giusto”, mormorava piangendo. I suoi occhi spalancati, sbalorditi, pieni di una dolorosa sorpresa. Io mi sentivo impietrita, ferma al mio posto con gli alberi che sfrecciavano veloci dietro al finestrino del treno. Avrei voluto rassicurarla, ma le parole mi soffocavano in gola ancor prima di pronunciarle. Non c’erano parole. Non riuscivo manco a pensare che sarebbe morta. Non sapevo cosa dire. Ogni parola che mi veniva in mente sembrava banale. Infine, comunque mi sono sentita pronunciare cose banali, per non morire io stessa di paura.
Adesso che sto gettando queste poche righe su quanto accaduto, sento quanto sia difficile esprimere quello che realmente sia accaduto. Sembra un accavallarsi di cose, di eventi, di pensieri. Nella vita tutto accade così contemporaneamente.
La malattia avanzava. giorno dopo giorno comparivano sintomi nuovi. L’hospice… i medici. Le pratiche da sbrigare, i litigi con i fratelli. La casa, i soldi. “Sistemiamo tutto in tempo, perché poi….sarà un problema” dicevano loro. Io rimanevo basita. Ma…..ma… non hanno capito cosa sta succedendo? Quel “poi” buttato lì come se nulla fosse….quel “poi” che voleva dire che ci sarebbe stato un “poi” e quel “poi” era la morte di mia sorella. Sembrava che nessuno se ne accorgesse!!!
Nostra sorella stava morendo!!!non ci sarà più!!! Non lo vedono??
Nonostante tutto, in questa nebbia, si succedevano i giorni. Lei credeva fermamente che sarebbe guarita. Faceva progetti. Iniziava una nuova dieta, di quelle diete che “fanno guarire”. Si alternavano giorni in cui c’era entusiasmo perché tutto stava andando per il meglio. Si vedevano miglioramenti, aveva un po’ più di energia e riusciva ad alzarzi. Quella dieta stava funzionando.
Poi un peggioramento, un litigio, il dolore fisico sempre più forte e allora l’ombra della morte era di nuovo lì con il suo annichilimento.
E allora si stravolgeva tutto da un giorno all’altro.

Si alternavano anche i momenti in cui lei voleva che si parlasse della sua malattia, della paura della morte. Voleva rassicurazioni sul fatto che tutto sarebbe andato bene a prescindere dall’esito. Per poi passare a momenti di depressione e silenzio in cui non si poteva pronunciare nemmeno la parola morte.
Un’altalena snervante e faticosa. Io mi sentivo in colpa, frustrata e impotente di fronte a tutto questo cambiare continuamente. Non riuscivo a gestirlo. Mi sentivo disorientata e molto stanca. Ma bisognava andare avanti e tenere alta la bandiera del coraggio. Lo staff dell’hospice non è mai venuto in aiuto a questa muta richiesta di aiuto che noi famigliari mandavamo. Non hanno mai visto la stanchezza, la frustrazione di chi cercava di starle accanto il più possibile, barcamenandosi tra impegni di figli, lavoro, spostamenti in mezzo al traffico di una città come Roma, per seguire pratiche burocratiche lente e ferruginose.

Poi però c’erano i momenti di meditazione.
Tutti i giorni, di pomeriggio meditavamo un’ora o due.
Tutto il chiasso e il frastuono della realtà cessava ed era un balsamo fresco per lei….e per me.
La cercava, se non riuscivamo a farla, le mancava. Riusciva veramente a rilassarsi da tutto quel caotico andirivieni di fai e non fai.
La guidavo in un rilassamento profondo e visualizzavamo luce, pace e colori.
Le chiedevo “ dove vuoi andare oggi?” e andavamo……
La morfina faceva più effetto con la meditazione e tutte le preoccupazioni, per un’ora, finivano.
Cessava l’urgenza di rispondere, di risolvere, di cancellare la sofferenza.
Cercavamo insieme questo senso profondo di spiritualità che potevamo percepire in quei momenti d’introflessione quando ci calavamo nei profondi recessi del nostro essere e riuscivamo a immergerci in una dimensione senza né tempo, nè spazio. Sentivamo con certezza che quel mondo era sempre stato lì, a nostra disposizione e ora ne guardavamo le meraviglie.
Ma per quanto potessi prolungare questa esperienza arrivava il momento della fine e si ritornava alla pesantezza del presente.
Una cosa però percepiva ogni giorno di più: c’era altro, oltre a tutto, c’era altro. Un senso spirituale dell’essere che è in ognuno di noi e di questo potevamo parlare. E allora i nostri argomenti del passato tornavano a essere importanti, ripresi sotto una luce più profonda e più pregna di spiritualità.

Una Spiritualità cercata, agognata, vissuta. Questo senso ultimo delle cose che solo in certi momenti sembra così impellente e urgente cercare, altrimenti si impazzisce. Nasceva il bisogno di parlare della sofferenza, del dolore spirituale.
Le manifestazioni di questo dolore spirituale c’erano tutte: il dolore refrattario al pensare a come sarebbe potuta essere la sua vita e a come l’aveva “sprecata” a fare cose che volevano gli altri e questo generava un senso di depressione e di disperazione.
 I rapporti famigliari che si disgregavano collassando dentro a un vuoto esistenziale. Si sentiva tradita dalla vita e da tutto il mondo che la circondava.
GLI ULTIMI ISTANTI


Mi piace pensare che se n’è andata serena.
Ma non so se è stato così.
Non si sa mai qual è l’ultimo giorno: neanche i medici possono dirlo.
Nonostante tutto ci sono segnali ben precisi che lo lasciano presagire.
Soprattutto in malattie lunghe come il tumore.
Eravamo tutti molto stanchi; lei era stanca.
Sapevo che dovevo riposarmi almeno un po’ per affrontare quello che sapevo sarebbe presto venuto: “l’ultimo giorno”, “l’ultima notte”.
Quella mattina sono arrivata presto da lei. Aveva trascorso la notte con una parente, era stata una notte tormentata. Aveva chiesto di me e così quando arrivai, mi accostai subito a lei accarezzandole la testa e sussurrandole “ va tutto bene, va tutto bene”.
Lei si tranquillizzò subito. Guardandola capii che era solo questione di ore. Non so da cosa. Era una sensazione. L’aspetto del suo corpo già straziato, scheletrico, esile e fragile adagiato sul letto, inerme e senza forza, non lasciava presagire nulla di buono.
Parenti e famigliari le erano attorno con il meritato silenzio. Chiamammo l’infermiera che arrivò in breve tempo: le fece un’iniezione di morfina in modo tale da poterla spostare e pulire senza arrecarle ulteriori dolori. Per noi ormai era diventata un’operazione difficilissima. Eseguito tutto con molta calma, l’infermiera se ne andò, lasciando mia sorella pulita sul letto. Dormiva profondamente. A me lasciò il compito di ripeterle l’iniezione dopo due ore. i famigliari che le erano stati accanto fino a quel momento le si trinsero attorno con cura. Io Trascorsi le due ore successive a chiedermi perché l’infermiera avesse dato proprio a noi il compito di farle l’iniezione di morfina che sentivo sarebbe stata l’ultima. Perché dovevo diventare operatrice sanitaria quando desideravo solo stare accanto a mia sorella che stava morendo? Non lo ritenevo giusto.
In preda a tutti questi dubbi, non eseguii il compito assegnatomi.  Era stata una giornata intensa ed eravamo spossati e disorientati e ora anche con questo peso addosso.
Finito l’effetto della puntura, dopo poche ore, mia sorella si risvegliò. Respirava a fatica e benché sapessi che era il sintomo della morte imminente credevo comunque di dover far qualcosa per poterlo alleviare. Così, confusa e agitata richiamai l’infermiera che, non solo mi sgridò per non averle fatto l’iniezione che mi aveva detto di fare, ma aggiunse pure che dovevo accettare ciò che stava accadendo e basta. Perché dovevo essere proprio io ad accelerare la sua morte continuavo a chiedermi sempre più angosciata.

Rabbia, Paura, impotenza, sono solo alcune delle emozioni che mi attraversarono. Dovevo decidere da sola e nessuno sarebbe venuto in mio aiuto. “Cosa posso fare?” Mi chiedevo freneticamente. Sentivo un’enorme responsabilità sulle mie spalle. Mi sono sentita abbandonata dagli operatori dell’hospice che l’avevano presa in carico un anno prima. Proprio nel momento della morte, mi lasciavano sola a gestire un evento così traumatico.
Decisi di calmarmi e di starle accanto, solo starle accanto. Non potevo fare altro. Le presi la mano e rimasi accanto a lei ad ascoltare il suo respiro pesante per qualche ora. Poi, d’un tratto con un fil di voce cominciò a dire qualcosa. Avvicinai il mio orecchio alla sua bocca e con meraviglia le sentii mormorare il nostro mantra. Anche io presi a intonare insieme a lei l’OM MANE PADME HUM.
Tanto dolore misto a gioia attraversò il mio cuore. Il tempo si era quasi fermato. Anna riuscì solo per pochi minuti a pronunciare il mantra e poi con un fil di voce mormorò “ Grazie Signore per tutti i giorni che ho vissuto, accompagna i miei passi nella luce”. Dopo di che il suo respiro si fece sempre più un rantolo e capii che se volevo risparmiarle ulteriore dolore dovevo fare quella puntura.
Morì quasi subito…e scoccò la mezzanotte.


IL VALORE AGGIUNTO


Sono trascorsi quasi 5 anni dalla morte di mia sorella e ancora oggi mi è difficile pensare e parlare di quei momenti senza cadere nella nostalgia di chi ha perso una persona cara e nel profondo vuoto che lei ha lasciato nella mia vita.
Una psicoterapeuta una volta mi disse “ la seconda freccia non cade mai lontano dalla prima”.
È un dolore acuto che ne riapre uno più antico e si sommano entrambi.
La morte di mia sorella mi ha fatto ripercorre tutti i dolorosi passi della morte di mio marito.
E devo confessare che qualche volta mi sono rifatta tutte le domande che sorgono in questi casi.
Perché a me? Perché anche mia sorella? Che castighi devo pagare?
Poi riflettendo mi sono risposta che la morte non è un castigo. Qualcosa è cambiato da quando ho dovuto affrontare la morte di mio marito. La rabbia è passata. Sono triste, questo si. Quando penso a mia sorella, mi manca. Ma non sono più arrabbiata. Per quanto la morte rimanga un mistero e continuo a indagare su questo inafferrabile argomento, sono convinta che sia solo un passaggio, una trasformazione da dover affrontare nel migliore dei modi.
Ho capito quanto sia in realtà solo l’altro lato della vita. Come della luna che ne vediamo sempre e solo una faccia ma l’altra esiste e sta solo dall’altra parte, la morte è solo l’altra faccia della vita che non si vede. Sono legate l’una all’altra e ne possiamo fare esperienza anche da questa parte. Prepararsi alla morte non è altro che vivere veramente affrontando le nostre paure e ricercare lo spirito anche nella materia. E quando arriverà il mio momento di sperimentare appieno questo passaggio, vorrei tanto arrivarci preparata almeno un po' e avere accanto a me persone che sappiano accompagnare con presenza e amore. Mi piacerebbe che la morte non fosse più vissuta come qualcosa di triste. Vorrei poter trasmettere pace io per prima.
In una meditazione ebbi questa visione:

In un’ampia e linda sala c’ero io con tante altre persone intorno a un letto.
La luce era soffusa e piacevole, di un leggero colore arancione. Ai piedi del letto c’era un gatto che dormiva e sul letto una persona morta da pochissimo. C’era silenzio e un leggero profumo di cannella si sentiva nell’aria. Dai visi quieti e sereni traspariva la gioia e la soddisfazione di aver compiuto bene il proprio lavoro. Io ero quella persona morta, ma nel contempo ero anche in mezzo a chi la osservava e ne ero felice.
Che la mia meditazione fosse una visione di un futuro possibile?
me lo auguro.

Giovanna Di Martino

 


(Sicilia 1963). A destra mia sorella Anna (9 anni)- a sinistra io (2 anni)- al centro mia sorella Franca (10 mesi).